Punta Arenas è uno dei passaggi obbligati quando si ha come destinazione la Patagonia Cilena oppure la penisola Antartica.
E’ situata nell’arcipelago della Terra del Fuoco sulla parte settentrionale del canale di Magellano ed è la città più meridionale del Cile.

Il canale di Magellano fu da questo navigatore individuato nel 1520, in una delle più rocambolesche spedizioni di esplorazione e scoperta di tutti i tempi, diventando la principale via di accesso dall’oceano Atlantico al Pacifico fino all’apertura del canale di Panama (1914), che ha dirottato gran parte del traffico marittimo su questa via più rapida e meno rischiosa.
Nel corso degli anni abbiamo fatto due visite a questa città, una più di vent’anni fa in occasione del nostro viaggio in Argentina e l’altra all’inizio gennaio del 2023 in partenza per la spedizione in Antartide.
In questo lasso di tempo è ovviamente molto cambiata, ma resta una cittadina di grande interesse e fascino.
Punta Arenas è stata una terra dove approdò ogni risma di umanità: da marinai a fuggitivi, da commercianti ad avventurieri, da ricercatori a predicatori, da studiosi ad amanti dell’avventura.
E’ stata anche terra di conquista e di distruzione delle popolazioni indigene, che qui abitavano.
Ha avuto una enorme importanza nei secoli passati per via appunto del traffico navale, ma ha mantenuto una grande vivacità economica anche quando questo traffico è fortemente calato, diventando un mercato di riferimento per gli allevatori di pecore e un centro per l’estrazione di risorse naturali, soprattutto il gas naturale.
E’ stata negli ultimi secoli testimone di spedizioni finite in tragedia, di grandi successi, di sfide estreme.
La storia della esplorazione Antartica passa per la maggior parte da qui.
Ha mantenuto questa sua caratteristica di punto di partenza più utilizzato dalle spedizioni scientifiche dirette in Antartide, anche grazie al fatto che qui ha sede l’Istituto Nazionale Antartico.
La stessa NASA ha una sua sede permanente in città.

In questi ultimi anni anche il turismo è cresciuto, tanto da porre Punta Arenas in competizione con Ushuaia per la supremazia nel settore turistico della Patagonia.
Come si può immaginare quindi ogni pietra di questa terra di frontiera racconta una storia.
Oggi la cittadina ha mantenuto sempre l’aspetto di un avamposto alla fine del mondo, ma si è modernizzata e il turismo, il via vai di scienziati e il commercio l’hanno resa viva e benestante.
Arrivandoci per la seconda volta, la mattina del primo dell’anno del 2023, ero curiosissima di vedere i cambiamenti e quindi mi sono subito armata di macchina fotografica e nella giornata ventosa, che passava da un cielo azzurro a nuvole nerissime, con un numero di ore di volo alle spalle inversamente proporzionale alle ore di sonno, di cui avevo goduto, sono andata a zonzo per le vie deserte della cittadina, che smaltiva la nottata di festeggiamenti di inizio anno.
L’albergo era proprio di fronte alla piazza centrale, dominata da una statua di Magellano in mezzo a un giardino dove i rami di alberi imponenti, in una area geografica dove gli alberi sono decisamente una rarità, si piegavano al vento. Si dice che toccando il piede dell’indigeno, che rappresenta la terra del Fuoco, scolpito ai piedi della statua di Magellano, si tornerà a Punta Arenas. Lo avevo fatto vent’anni fa e lo rifeci ora, anzi lo indicai anche a un paio di stranieri orientali, che si aggiravano sperduti intorno alla statua.

Ricevetti in cambio una serie di inchini, ringraziamenti a mani giunte e sorrisi.
Dall’altra parte della piazza si trova la chiesa in puro stile coloniale (1892), i palazzi istituzionali e poi, proseguendo nel cammino e dirigendosi verso il porto, il palazzo Braun Menendez (oggi trasformato in museo) risalente al 1906 e appartenuto alla potente e ricchissima famiglia Menendez e poi la casa Sara Braun in stile neo-classico francese. E’ impressionante lo sfarzo e il lusso di vita di questi pochissimi fortunati a confronto con la vita dell’epoca in un posto remoto e disagiato.

Per capirlo bisogna pensare che la città era stata fondata nel 1848 come una piccola colonia penale (questo la accomuna a Ushuaia, nata nello stesso modo) e poi si era sviluppata economicamente rapidissimamente per via del traffico navale, l’allevamento di pecore e la scoperta di giacimenti d’oro. L’arricchimento di chi governava queste attività era stato esponenziale, ma intorno a questi eletti girava una manovalanza povera e spesso disperata, che faticava a sopravvivere in un ambiente durissimo e facendo lavori altrettanto difficili.
Invece l’importanza che ha ricoperto nelle esplorazioni è ricordata da targhe blu appese sui muri delle strade dedicate a questo o quell’altro esploratore. Così ci si ferma di volta in volta davanti a questi brevi riepiloghi delle imprese di Charcot, De Gerlache, Amunsden, Shackleton, Scott.
Per me in partenza per l’Antartide e con la mente piena dei racconti delle loro incredibili e coraggiosissime avventure, che avevo letto e riletto nei mesi precedenti la partenza, erano una sosta obbligata.
Ma la sorpresa fu arrivare sul lungo mare, ove trovai un monumento a Shackleton e la commemorazione dei 500 anni dalla scoperta dello Stretto di Magellano. Tutto questo vent’anni prima non c’era, mentre era immutato il mare che si estendeva a perdita d’occhio.



Un pontile affollatissimo di cormorani antartici e sulla destra un paio di navi ancorate creavano una macchia di colore, mentre altre navi erano alla fonda al largo.
Come ho accennato, in giro non c’era nessuno eccetto qualche turista come me e quindi mi potevo illudere che quel cielo, che si reinventava di continuo per effetto del vento e delle nuvole, quella luce piena e cangiante, che bagnava il paesaggio e creava ombre sui monumenti, fossero tutti per me.
Malgrado il freddo passai parecchio tempo su quella enorme terrazza sul mare e respirare l’aria incredibilmente pulita e a farmi assorbire da quanto mi circondava, soprattutto dalla sensazione di essere davvero alla fine del mondo. Oltre solo il mare e i ghiacci.
Qualunque cosa succeda in Antartide i soccorsi sono gestiti da qui e mi venne in mente che avevo letto qualche anno prima (2016) dell’avventura finita in tragedia di Henry Worsley, ex tenente colonnello dell’esercito britannico.
Worsley stava tentando di completare l’attraversata in solitaria del Polo Sud senza alcun aiuto esterno.
Esausto e disidratato ha finalmente chiamato i soccorsi dopo 71 giorni. Purtroppo aveva aspettato troppo ad arrendersi e la sua salute era irrimediabilemnte compromessa. Malgrado il trasporto aereo all’ospedale Clinica Magallanes di Punta Arenas morì di peritonite batterica.
Da qui nel 2018 era partito anche Colin O’Brady, che portò con successo a compimento l’impresa, tentata da Worsley, in 54 giorni. Il diario della sua avventura è decisamente adrenalinico.
Fu mio marito a richiamarmi all’ordine con la vibrazione del cellulare. Mi stava aspettando in albergo ed era ora di pranzo.
Fui costretta quindi a lasciare il grido dei gabbiani, il volo dei cormorani e i miei pensieri per rientrare a passo svelto in albergo, salutata da qualche raro passante o dal guardiano di qualche palazzo con un “feliz año nuevo”.
Purtroppo tutti i musei erano chiusi così non potei tornare a visitare il Museo Salesiano Maggiorino Borgatello, che tanto mi aveva affascinato vent’anni prima. Si tratta di un museo allestito dai padri Salesiani italiani a partire dalla fine dell’ottocento, che mostra una ricca collezione etnografica, di storia naturale, di paleontologia, di fauna e flora, di storia delle missioni e di mineralogia.
Al rientro dalla spedizione in Antartide, trascorsi qui ancora una serata euforica cenando a base di “Centolla”, il granchio prelibato tipico di questa parte del globo, per ripartire la mattina dopo con destinazione il parco naturale di Torres del Paine, la più famosa e iconica area della Patagonia cilena.
Fu creato il 13 maggio 1959. Nell’aprile del 1978 L’UNESCO lo dichiarò riserva della biosfera e nel 1994 lo inserì tra le candidature alla lista dei patrimoni dell’umanità.
Stiamo parlando di un’estensione di circa 181.414 ha, con una grande varietà di ambienti, che vanno dalle montagne alte fino a 3000 mt a vallate, fiumi, laghi, cascate e ghiacciai.


Meta di escursionisti e scalatori, sono famosissimi i suoi corni (le Torres del Paine o Cuernos del Paine)
Si tratta di enormi monoliti di granito erosi nel tempo dal ghiaccio, dall’acqua e dai venti.
Sono tre e una di queste (la Torre Norte) è stata scalata per la prima volta da una spedizione italiana nel 1958 guidata da Guido Monzino e per questo è chiamata Torre Monzino. La torre centrale fu scalata per la prima volta nel 1963 da Chris Bonington e Don Whillans. La torre Sur invece fu scalata per la prima volta di nuovo da italiani, una spedizione del CAI di Monza e fu chiamata Torre De Agostini in onore del prete salesiano ed esploratore patagonico Alberto María De Agostini, sempre nel 1963.

Quando ci ero stata 20 anni fa all’interno del parco c’era un rifugio piuttosto semplice ed essenziale il “Las Torres” risalente agli anni intorno al 1970. Da lì avevamo esplorato tutta l’area in particolare i laghi che sono tanti e ognuno con un colore particolare: blu-azzurro l’enorme lago Sarmiento, che si trova al confine del parco, turchese la laguna Azul, grigio il lago Grey, verde la laguna Amarga, e poi percorremmo gli immensi paesaggi regno dei Guanaco, dei Condor e dei Puma, all’epoca specie in pericolo e difficilissimi da avvistare perché pochi, solitari e molto elusivi. Molti gli uccelli tra cui i caracara, le oche di Magellano (o con testa di cenere), i fenicotteri cileni, i nandu (simili agli struzzi ma molto più piccoli), i cigni tra cui quello collo nero, l’anatra dagli occhiali, etc.


L’esperienza era stata molto entusiasmante, perché gli scenari di questo parco sono un susseguirsi di roccia a volte coperta di neve, di montagne verdi subito al di sotto , di pampa punteggiata da una varietà di arbusti tra cui il calafate, di laghi in cui si specchiano i paesaggi e le nuvole, il tutto sotto un cielo mutevole.
Nell’area protetta si alternano ecosistemi diversi che vanno dalla steppa della Patagonia alla macchia preandina, dalla foresta decidua di Magellano al deserto andino.



Un discorso a sè merita il vento: un assoluto protagonista e una costante in questo clima anche in piena estate. Si tratta di un elemento importante del paesaggio, perchè con la sua forza piega e orienta gli alberi, increspa i laghi, e le distese d’erba e di canne sembrano sempre onde di un mare. Come sopra detto influisce sul cielo dove le nuvole corrono e si disegnano in forme sempre diverse a volte coprendo le cime delle rocce altre volte lasciando spazio a un azzurro intenso contro il quale si stagliano queste montagne di basalto.
Il vento poi agita la cascata chiamata Salto Grande. La cascata è alta quasi 30 mt e collega due laghi : il lattiginoso Nordenskjöld, che si forma dal fiume Paine, e il Pehoe. Alle spalle si stagliano in lontananza le torri, con i ghiacciai alla loro destra, e poi una pianura verde di macchia e bassi arbusti fino al letto della cascata spumeggiante tra i toni del verdino, del latte e del bianco.

Insomma questo parco ci era rimasto nel cuore e nel gennaio del 2023 abbiamo prolungato il nostro soggiorno di tre giornate e lo abbiamo raggiunto in macchina. Da Punta Arenas sono 312 KM di un panorama pianeggiante di steppa patagonica, dove si incontrano ai lati della strada caracara, aquile, nandu e guanachi e dove gli occhi si perdono in distese senza nient’altro che il cielo e la prateria.
C’era anche un’altra ragione, che ci spingeva a tornare, ed era la speranza di avvistare i puma, che ci erano sfuggiti la prima volta.
Quando ci eravamo stati 20 anni fa Torres del Paine faceva parte di un sistema di parchi nazionali frammentario e circondato da attività umane come le grandi estancia (grandi allevamenti di bovini e pecore).
Il Cile ha, in questi anni, fatto una scelta di sviluppo basato sulla protezione della fauna e sull’incentivazione del turismo.
In pratica ha creato un insieme di parchi collegati fra loro che costituiscono un polmone per le varie specie, che si possono spostare in sicurezza e quindi seguire rotte per la ricerca del cibo , ma anche, per le razze territoriali, la possibilità di avere a disposizione ampi territori di caccia.
Il risultato è stato una ripresa delle specie a rischio e un incremento delle popolazioni animali.

La creazione di un area protetta nella Patagonia cilena ha non solo uno scopo volto alla protezione faunistica ma anche allo sviluppo delle comunità locali (ce ne sono più di 60 nella zona) armonizzando le esigenze della natura con quelle delle popolazioni, puntando su un turismo che rispetti le persone e gli ambienti.
In quest’ottica nel 2018 è stata inaugurata la strada dei parchi che collega 17 parchi, in tre regioni del Cile (la regione dei laghi, di Aysén e di Magellano) con 24 eosistemi differenti.
Torres del Paine ha beneficiato molto della politica conservazionista e rispetto a 20 anni fa abbiamo potuto verificare, faunisticamente parlando, quanto le popolazioni di animali siano cresciute e siano in salute.
Questo ricopre un significato importante per quanto riguarda il predatore più importante del Parco : il puma.


Come detto all’epoca della nostra prima visita il puma era raro e non avemmo la fortuna di avvistarlo.
Adesso la popolazione dei puma è cresciuta in modo consistente e soprattutto nel Parco di Torres del Paine si è verificato un fenomeno che ha suscitato l’interesse dei ricercatori.
Infatti si sono osservati fenomeni di aggregazione del tutto inusuali, così che non è raro incontrare interazione fra vari animali, ancora più insoliti perchè spesso non legati da parentela.
I puma restano animali elusivi ma questi cambiameti comportamentali hanno reso più facile tracciarli ed è quello che fanno nel parco i tracker. Seguono gli animali e come turista hai la possibilità di aderire a questa ricerca e tentare di avvistarli con maggiori probabilità di successo.
In altre parti del mondo dove i puma sono presenti non si sono verificate fino adesso queste condizioni, era dunque una opportunità unica.
Ovviamente non esiste in un ambiente selvaggio la certezza di incontrare questo o quell’esemplare, ma le possibilità erano maggiori adesso di quanto non fossero 20 anni fa.
Avemmo una grande fortuna. La mattina presto subito appena usciti “a caccia” giunse via cellulare una segnalazione alla nostra guida/autista, un ragazzo preparatissimo esperto naturalista di origine messicana, che a un certo punto aveva abbandonato la sua carriera di ingegnere per trasferirsi qui e fare la guida per tutte le attività che il parco offre. Infatti oltre alla fotografia naturalistica, ci sono escursioni a piedi, arrampicate, gite a cavallo, etc.
Vicinissimo alla strada di percorrenza dietro a un ampio cespuglio sette puma inclusa una madre con il piccolo stavano divorando la preda, un guanaco, che avevano cacciato.

Ci precipitammo nel luogo indicato e quando arrivammo trovammo il tracker che ci indicò il cespuglio dove noi non vedevamo assolutamente niente.
Ci mettemmo fermi a distanza di sicurezza e iniziammo l’attesa che qualche predatore si muovesse e diventasse visibile.
In natura bisogna avere molta pazienza e per fortuna il clima non era male, soleggiato, ventoso ma non freddo. Dopo quasi mezz’ora incominciammo a sentire dei brontolii, qualche reazione di stizza o di aggressività, qualcosa si stava muovendo anche se noi continuavamo a non vedere niente.
Mentre ero in attesa di qualche reazione consideravo che se non ci fosse stato il tracker avrei potuto passare di lì cento volte e mai avrei immaginato che a pochi passi c’era un gruppo di puma.
Finalmente dopo circa un’ora e mezzo tra i cespugli apparve il muso di una femmina. Che emozione vederla guardarsi intorno e poi sparire di nuovo dietro la vegetazione.

Il ghiaccio era rotto e nel giro di un’altra mezz’ora l’ambiente cambiò. Prima uscirono allo scoperto mamma e figlio/a poi altri due si allontanarono portandosi dietro un pezzo di preda, un’altro si andò a sedere un po’ più in là evidentemente sazio, dall’altra parte tre animali finivano di mangiare e si scambiavano effusioni. Insomma ho trascorso momenti incredibili a un passo da un branco di puma che alla fine si sono allontanati, chi risalendo la collina, chi addirittura uscendo in strada a pochissimi metri da me, tanto che la guida, attentissima, mi ha fatto arretrare perché, immersa negli scatti fotografici, non mi ero accorta di avere accorciato la distanza di sicurezza. La guida mi ha fatto anche un video dove ha ripreso me così vicino agli animali. Un bellissimo ricordo.
Era praticamente finita la mattinata e mio marito ed io eravamo felici ma stanchissimi perché la tensione e la concentrazione era stata altissima per oltre tre ore.
Riprendemmo il nostro giro per il parco e scaricammo la tensione con una breve passeggiata intorno a una pozza d’acqua piena di canne spazzate dal vento dove qualche anatra si nascondeva e pescava.

Poi finimmo in un punto panoramico dove c’era una baracca che fungeva da bar e ristoro. Lì consumammo la nostra colazione al sacco con davanti le torri avvolte dalle nuvole. Tempo di finire il pranzo e le nuvole si erano dissolte lasciando le torri visibili in tutta la loro maestà.
La sera prima avevamo dormito nel lodge “Las Torres”, sì quello di vent’anni fa, ma completamente ristrutturato e allargato così che ora si dava arie di lodge stellato, anche se era rimasto un posto di transito impersonale e con un ristorante molto scenografico ma appena sufficiente in termini di cibo.
Ci spostammo invece la seconda notte al lodge del Lago Grey e qui fu tutta un’altra storia. La posizione e soprattutto la camera che ci avevano assegnato erano perfette. Una vetrata sul lago e sulle montagne con una vista mozzafiato. Accogliente e con un ristorante ottimo, il personale gentile e disponibile. Invitammo a cenare con noi la guida e passammo una bellissima serata chiacchierando a lungo fino a che stanchi e soddisfatti andammo a dormire con la prospettiva di una sveglia molto per tempo la mattina dopo.

Il Lago Grey è a circa 60 km dall’ingresso del parco quindi fu gioco forza ritornare al Las Torres visto che sarebbe stata l’ultima notte nel parco e la mattina dopo avremmo dovuto prendere il volo che da Puerto Natales ci avrebbe riportato a Santiago.
La giornata fu comunque di puro divertimento tra fenicotteri, mandrie di Guanaco, laghi e sempre quelle montagne imponenti a fare da sfondo a paesaggi di un respiro che noi europei facciamo fatica anche solo a immaginare. Facemmo parecchie fermate e potei anche con una camminata intorno all lago arrivare a distanza di sicurezza da un affollamento di fenicotteri che cercavano cibo molto vicino a riva. Il terreno era roccioso e fangoso, ma quella macchia bianca e rossa di “flamingo cileni “ erano una calamita e senza disturbarli riuscii ad immortalarli ripetutamente.
La sera poi trovammo una sorpresa nella camera del lodge: un invito a una cena tipicamente cilena, ovvero una grigliata di tutti i tipi di carne dal manzo all’agnello al guanaco e tanta verdura alla griglia. L’invito era per circa dodici coppie ospiti in albergo, tra cui noi, e cenammo intorno a un fuoco di brace su cui venivano arrostite le carni circondati da una vetrata sulla prateria. A un certo punto una mandria di cavalli, che veniva riportata al ricovero notturno da un gaucho, attraversò al galoppo la piana. Il sole tramonta tardissimo in questa stagione così la luce era quella tipica del tramonto, radente e molto suggestiva.

Adesso il nostro viaggio era davvero alla fine e ripartimmo la mattina dopo salutati, dopo una breve e intensa pioggia, da un arcobaleno magnifico a ridosso delle montagne.


