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Tromso e la tempesta

É Il 27 gennaio del 2024 ed è già stata annunciata da qualche minuto la discesa per atterrare a Tromso, quando fuori dal finestrino una luce abbagliante attira il mio sguardo e mi appare una magnifica luna piena, che splende sopra un letto compatto di nuvole che ci apprestiamo ad attraversare.

Non lo so ancora ma questa è l’ultima visione del cielo limpido per i prossimi cinque giorni.

Ci immergiamo in una densa nuvolaglia agitata da un vento irruento, che strapazza la fusoliera fino a quando tocchiamo terra e finalmente ci fermiamo.

La gestione degli aeroporti norvegesi è sempre piena di sorprese e anche questa volta fanno del loro meglio per mantenere fede alla loro fama. Si sbarca in una manica e sto per dire meno male, vista la pioggia scrosciante, ma troppo presto, perché a metà manica si deve scendere una scaletta che porta all’aperto, dove, dopo un percorso a piedi, senza alcuna tettoia, sul ghiaccio e sotto vento e acqua, si rientra al coperto con una scala che sale e, finalmente, siamo indirizzati  verso il recupero dei bagagli.

Sono solo le 18 e 40 ma sembra notte fonda e, uscendo alla ricerca del bus navetta per il centro di Tromso, ci accoglie il niente. Non un punto di informazioni, non una fermata segnalata di autobus, naturalmente niente navette o bus, solo una fermata di taxi, che spariscono in un attimo.

Attraversiamo le due carreggiate ghiacciate e, accompagnati da una pioggia laterale senza remissione, arriviamo sotto una specie di pensilina, dove speriamo che un taxi arrivi. Per fortuna eccolo in un tempo irragionevole per le condizioni climatiche, ma del tutto accettabile in termini oggettivi e in pochi minuti (l’aeroporto dista solo qualche chilometro dal centro città) ci ritroviamo nel nostro albergo.

É un provvidenziale tetto sulla testa, anche se la camera sembra più adatta a dei nanetti che non a due adulti, che dovrebbero potersi muovere all’interno, ma ora la priorità è asciugarsi e uscire alla ricerca di un ristorante, visto che siamo affamati.

Siamo nel centro di Tromso quindi supponiamo che non dovrebbe essere un problema trovare un posto per cenare.


Di fianco all’albergo a mezzo isolato ce ne è uno di cucina norvegese e proviamo prima a telefonare, senza ricevere risposta e quindi ad andarci.

I norvegesi forse perché sono pochi, forse perché vivono in condizioni climatiche più che difficili, forse perché le grandi distanze li hanno resi  poco socievoli, di sicuro non sono né affabili né tantomeno empatici.

Non ci meravigliamo quindi quando veniamo sbattuti fuori dal locale con un “ se non avete prenotato non abbiamo posto”.

Ok. Cambiamo strategia e proviamo in una trattoria di fronte che sembra meno pretenziosa e più turistica, ma “Beggars can’t be choosers” ovvero “i mendicanti non possono essere selettivi”, espressione appropriata al caso.


Qui il cameriere, molto più loquace, infatti è di origine italiana, ci indirizza a un tavolo in una saletta accogliente, tutta in legno. L’altro tavolo è occupato da un gruppo di giovani americani molto pittoreschi e rumorosi e  finalmente, guardandoli, ci viene da sorridere.

Cibo banale, una buona birra e a dormire.

Durante la notte mi sveglio e mi accosto ai vetri della finestra e “Oooh” un manto bianco ha coperto la strada deserta e continua ad ispessirsi perché la pioggia si è tramutata in neve, che scende con uguale intensità.

Torno sotto il piumone e ascolto il silenzio irreale, interrotto solo dal mugghio del vento violento.

La mattina ci alziamo tardi, verso le 8. Abbiamo a disposizione la giornata per esplorare la città e nel tardo pomeriggio dovremmo andare a caccia del cielo limpido e dell’aurora boreale.

Fuori il cielo sereno è un miraggio, ma per ora ci occupiamo della colazione.

E’ ancora scuro. In questa stagione le ore di luce sono tra le quattro e le cinque e il paesaggio fuori dalla finestra sembra una fiaba nordica, dove solo elfi, o meglio “troll” (in lingua norvegese), si avventurano. La sala colazione è senza finestre ma per il resto c’è proprio tutto. Salmone, porridge, pancake, uova, burro, bacon, yogurt, brioche, insomma un agguato a qualsiasi tipo di dieta.

Mi siedo davanti a una tazza di te e faccio onore alle vivande.

Quando finalmente siamo pronti ad avventurarci all’esterno scopriamo che siamo nel mezzo di una emergenza meteo. Nelle prossime 48 ore avremo la peggior tempesta degli ultimi trent’anni a Tromso.

Eroicamente ci proviamo ad uscire e sperimentiamo che qui quando il tempo è brutto è davvero invivibile.

Il vento è talmente forte che nevica in orizzontale. La neve ti arriva adosso come schegge di vetro colpendoti la faccia, o almeno quella parte che è scoperta (fronte e occhi). Il ghiaccio di cui sono lastricate strade e marciapiedi è coperto da uno tappeto di neve fresca.

Non ci preoccupiamo, i nostri stivali antartici fanno egregiamente il loro dovere, ma dobbiamo fare i conti con il vento, che ci sposta con forza, rischiando ad ogni passo di farci perdere l’equilibrio e obbligandoci ad addossarci al muro o ad attaccarci a un palo.

Rimandiamo il giro della città. Torniamo in camera e tra una lettura, una dormitina,  e uno sguardo fuori dalla finesta ci rilassiamo e speriamo in un miglioramento.

Ovviamente le uscite in mare sono tutte cancellate, le possibilità di andare in auto a caccia dell’Aurora Boreale rimandate e per qualunque altra cosa che implichi stare all’aria aperta se ne parla domani.

Eppure non è nè sconforto, nè rabbia quella che ci pervade, invece è una sensazione di stare facendo un’esperienza diversa. Non siamo nuovi ai ghiacci, artico e antartico ci hanno preparato a essere alla mercè del meteo, ma una tormenta come questa è un evento che allarma anche i locali, figuriamoci noi. Del resto se decidi di arrivare al 69 parallelo nord in inverno non puoi lamentarti se il tempo è da lupi.

Sdraiata sul letto della mia camera, con un libro di viaggi tra i ghiacci, rimugino che un conto è leggere a casa tua i resoconti delle esplorazioni di Amundsen, delle peripezie di Shackleton, della vita nella notte polare di tanti famosi e meno conosciuti, che si sono trovati in mezzo al gelo e al terrore, che la natura scatenata provoca, e un conto è averne un assaggio, sia pure protetto, come quello che stiamo vivendo.

Intanto per la sera, si fa per dire, perché qui la cena è servita a partire dalle 16:00 (un’altra primizia per me), scopriamo sempre a pochi metri dal nostro albergo un ristorante vietnamita eccellente. Per giunta nel suo menù c’è il granchio, disponibile in questa stagione a queste latitudini. Cucinato al naturale con solo qualche salsa a lato, ma principalmente con un po’ di limone è una prelibatezza.

Il nostro ristorante vietnamita lo ha in menu esattamente così, oltre ad avere una minestra di pesce piccante e vari altri piatti decisamente piacevoli. Il servizio è rapido ma molto gentile, un ragazzo norvegese, credo il direttore del locale, e una sorridente donna orientale si avvicendano al nostro tavolo e, visto che nelle giornate seguenti ci vedranno più di una volta, ci prenderanno in simpatia e ci coccoleranno.

L’ultimo pomeriggio prima di partire per la nostra ultima caccia all’Aurora Boreale ci hanno veramente considerati ospiti di riguardo, come solo gli orientali sanno fare, offrendoci antipasti, intanto che aspettavamo quanto ordinato, e alla fine facendoci dono anche di un dessert. Tanto calore da queste parti è decisamente non comune e quindi va doppiamente apprezzato.

Questo però succederà dopo. Per ora Il secondo giorno di tempo fuori controllo dobbiamo rinunciare all’uscita in mare alla ricerca delle balene, che  sono presenti in queste acque nella stagione tra novembre e fine gennaio.

Una volta i cetacei si radunavano molto vicino a Tromso seguendo i banchi di aringhe, loro cibo principale. Per effetto del clima le aringhe si sono spostate più a nord e le balene le hanno seguite.

Ora perciò per avvistarle è necessaria una navigazione in mare aperto di circa due ore ed, ovviamente, altrettante per il ritorno. L’escursione dura più o meno otto ore ed è assolutamente fuori questione  affrontarla con le attuali condizioni del mare. C’è un’alternativa, ovvero ripiegare su una esplorazione sotto costa, che offre scenografie e paesaggi spettacolari, oltre alla protezione del fiordo, che dovrebbe rendere meno agitati e ingestibili i marosi.

Decidiamo di optare per questa avventura per il giorno seguente ,e, la mattina prima delle nove, dopo aver ingoiato la mia pillola per il mal di mare, sicuramente necessaria anche in acque meno perigliose del mare aperto, ci presentiamo al molo per trovarci davanti il comandante, che ci dice di essere costretto a cancellare anche questa navigazione. Ci spiega che non si presenta alcun problema (si fa per dire)  in andata, perché il moto ondoso burrascoso è gestibile , ma al ritorno invece le previsioni indicano un peggioramento  tale che non consente margine di sicurezza. “Troppo rischioso!” E se lo dicono i locali, che sono tra i marinai più temerari del mondo, ci crediamo.

Pazienza!  Ci cerchiamo un bar, impresa non facilissima perché qui tutti gli esercizi aprono alle 11 del mattino. Alla fine una panetteria con annesso caffè ci ospita per qualche tempo, lasciandoci forzatamente a pigroneggiare, osservando la vita lenta che si svolge davanti a noi, il porto e il panorama di tutte le tonalità tra grigio e nero, mentre sorseggiamo un cappuccino.

Quando lasciamo il caldo locale decidiamo di fare una puntata fino al Hard Rock Cafè a metà strada in direzione del nostro albergo.

L’Hard Rock Cafè di Tromso è particolare per una serie di ragioni. E’ l’Hard Rock Cafè più a nord del mondo e uno dei più vecchi (1971), ma soprattutto si trova in un edifico storico, che risale al 1868. Tra il 1915 e il 1976 fu sede di una farmacia: la Fritz G Zapffe’s pharmacy “Apotek Nordstjernen”  e il farmacista Fritz G. Zapffe abitava al piano superiore del negozio. Fu legato da una lunga amicizia a Roald Amundsen e lo ospitò proprio in questo edificio,  quando Amundsen si trovò a Tromso. In particolare da Tromso Amundsen partì in soccorso del dirigibile di Umberto Nobile e della sua squadra. Da quella spedizione non fece più ritorno.

Roald Amundsen è un eroe nazionale in Norvegia e sulla sua incredibile vita si inciampa di continuo qui.

Il piccolo museo polare, che contiene notizie sulle origini e sulla storia di questa zona a nord del circolo polare, dedica l’intero primo piano ad Amundsen. E’ una delle nostre mete nel pomeriggio.

E’ coperto, riscaldato e ospitato in una casa di legno rossa tipica della zona.

Una cassiera scortese, al limite della maleducazione, ci fa i biglietti e ci sbatte sul tavolo un fascicolo talmente usato, che si sta disfacendo, con un po’ di informazioni su quanto stiamo andando a vedere.
Per mia fortuna quanto racconta mi è noto e giro quindi il museo seguendo la mia ispirazione e
soffermandomi su interessanti manufatti risalenti alla preistoria.

Sono anche preparata a non trovare niente di particolare al piano dedicato agli esploratori, invece resto a lungo davanti alla slitta che aveva accompagnato Amundsen al polo sud.

Di nuovo quella percezione delle drammatiche condizioni in cui si sono svolte le epiche spedizioni tra fine ottocento e inizio novecento. La mia mente scivola inevitabilmente verso le terre deserte battute da tutte le possibili intemperie e da fenomeni presenti solo in lande estreme, immaginando quanto dovesse essere sconvolgente e terrorizzante avanzare su una slitta di legno dormendo in una tenda, che in ogni momento poteva essere sradicata e portata via dalla tempesta, lasciandoti a morte certa.

Me ne rendo maggiormente conto paragonando quanto ci limiti la violenza degli elementi , pur essendo in mezzo alla civiltà, con a disposizione mezzi di difesa e in tutta sicurezza.
Uscendo poi  dal museo la bufera rende difficile camminare senza sbandare come ubriachi, il ghiaccio per quanto spazzato dai mezzi di manutenzione delle strade è una lastra continua alta qualche centimetro, la neve, sia quella a terra che quella che cade dal cielo, spinta e sollevata dal vento, acceca. La luce della notte ha quella colorazione blu fantastica ed unica di questo periodo nelle regioni polari.  

Nelle ultime 48 ore a Tromso e isole limitrofe parecchi tetti sono stati divelti dalla violenza della burrasca e, anche il giorno dopo, il vento, assolutamente eccezionale per intensità e durata, costringe le autorità a chiudere il ponte che collega l’isola di Tromsoya con l’isola di  Kvaloya, ovvero una delle vie indispensabili alla circolazione. Senza quel ponte c’è da fare un tragitto di circa tre ore per arrivare dall’altra parte.

Il ponte in genere viene chiuso, in caso di mancanza di sicurezza per raffiche di vento, dieci minuti oppure venti, magari più volte al giorno, ma questa chiusura del 30 di gennaio dura 7 ore filate, mettendo in ginocchio l’intera popolazione: code di ore e ore, batterie delle macchine elettriche scariche, rischio concreto di passare la notte fuori casa al gelo. Molti sono ricorsi ad amici e conoscenti, che stanno dall’una o dall’altra parte, per trovare temporanea ospitalità. Tutti gli autobus del trasporto pubblico hanno passato in coda molte ore (si calcola che ci fossero 100 veicoli dalle due parti del ponte).
 Le autorità non sono state in grado di prevedere per quanto sarebbe durato il blocco e se e quando avrebbero potuto riaprire. La chiusura è avvenuta alle 17:30 e almeno i ragazzi, che uscivano da scuola, sono riusciti a tornare a casa.

In questo contesto la nostra caccia all’aurora è davvero il minore di problemi ed all’ultimo secondo viene cancellata.

Sembra davvero una vacanza che non si doveva fare e una vera sfortuna aver scelto quest’ultima settimana di gennaio e inizio di febbraio, ma la natura ti sorprende sempre e spesso la pazienza ti regala emozioni impensabili.

Il 31 gennaio ecco la quiete dopo la tempesta: cielo coperto ma niente precipitazioni, vento molto più contenuto, insomma abbiamo la possibilità di fare un giro per le isole via terra.

Il paesaggio è coperto di neve e la luce vagamente livida, il mare, che trattandosi di isole non grandi, è sempre in vista, è relativamente più calmo,  gli alberi spogli stendono i loro rami come braccia verso il cielo plumbeo e le montagne intorno formano uno scenario cristallizzato e quasi in bianco nero, se non ci fosse qualche rossa casetta di legno a interrompere la monocromia.

Il silenzio, dovuto alla neve che assorbe ogni rumore, contribuisce alla sensazione di irrealtà e si sente solo il sibilo costante del vento.

La natura si sta rianimando dopo le intemperie e, mentre lo sguardo spazia sul mare e sulle montagne di fronte a noi, di fianco al Memoriale alla Corrazzata Tirpitz a Sørbotn, nella penisola di Håkøya, ecco su un pontile cinque o sei cormorani a riposo e, risalendo sul nostro mezzo ci accorgiamo di un’aquila di mare che vola sopra di noi, seguita poi da un’altra che sembra condividere la gioia del volo.

Avevamo già incontrato in passato le aquile di mare norvegesi, alle Lofoten, in estate, in un clima totalmente diverso e ci fa piacere ritrovarle alte sulla nostra testa adesso.

Dalla storia della seconda guerra mondiale, rappresentata dal frammento della murata della nave Tirpiz, qui affondata nel 1944 e sull quale è posta una targa a ricordo, con un salto di secoli ci ritroviamo nella preistoria a Skavberget con le sue incisioni rupestri. I siti preistorici, per quanti se ne siano visti sono sempre fonte di grande fascino. Questi sono all’aperto su una roccia, circondati dal ghiaccio e, malgrado l’esposizione al pessimo tempo e la vicinanza al mare con la sua salsedine, conservati benissimo. Una pagina di un libro di pietra scritto migliaia di anni fa, che trasmette flash di una esistenza, che arriva nel nostro mondo odierno e ci sorprende, ci connette con vite perdute, il cui unico segno di immortalità sono questi tratti incisi nella roccia, sovrastati da pini che sembrano proteggere l’area.

Ma il luogo che mi conquista e mi entra nel cuore è la spiaggia di Sandoya.  Se non fosse per il clima rigido sembrerebbe di essere stati paracadutati ai Caraibi.

Un mare cristallino e trasparente, che sfuma dal verde smeraldo all’azzurro, una spiaggia bianchissima di sabbia fine, su cui le onde dolcemente si frangono, fasci di alghe e conchiglie sulla battigia, che si alternano a qualche pezzo di corallo bianco. Dove siamo finiti? Se mi giro vedo neve e ghiaccio, ma se guardo verso il mare lo spettacolo è assolutamente inconguro con quanto mi sta alle spalle. Siamo su una spiaggia corallina, quella più a nord del pianeta. In profondità infatti si trova l’inizio di una barriera, che si estende per centinaia di chilometri senza essere mai raggiunta dalla luce. Non avevo idea che qui si trovasse una barriera corallina e soprattutto non avevo idea della meraviglia di questo paesaggio da sud del mondo ambientato oltre il circolo polare artico.

 In lontananza sul mare proprio di fronte a dove mi trovo si erge un monte solitario di forma triangolare, che si dice abbia ispirato la Cattedrale Artica di Tromso, di cui avremo una bella vista la sera stessa.

La Cattedrale Artica è in realtà una chiesa, mentre la cattedrale vera e propria di Tromso si trova in centro ed è più tradizionale.

Costruita nel 1965 per la maggior parte in cemento, su disegno di Jan Inge Hovig, è stata paragonata all’Opera House di Sidney. E’ diventata un simbolo di Tromso, ma a mio parere ha solo un vago richiamo all’Opera House e mi sembra che non si possa fare un paragone di questo tipo.

Arriviamo così agli ultimi due giorni di permanenza e finalmente alla ricerca di quel cielo limpido che significa “Aurora  boreale”.

Sono due esperienze completamente diverse ma ugualmente affascinanti.

La prima sera, dopo il nostro pranzo/cena al ristorante vietnamita, usciamo su un veicolo martellato dalla tormenta, percorriamo strade deserte, in luoghi piuttosto spopolati, incontriamo solo una piccola renna sul lato della strada. Stiamo seguendo le segnalazioni del meteo e della presenza di attività dell’aurora.

Vige qui un sistema che nei parchi naturali di tutto il mondo abbiamo ritrovato, ovvero le varie auto sul campo comunicano fra loro, segnalandosi e aggiornandosi sulla situazione.

A proposito delle condizioni atmosferiche, ho scoperto che le previsioni a Tromso sono piuttosto difficili e non molto affidabili, perché essendo così a nord la copertura satellitare è scarsa.

Comunque la nostra caccia prosegue per parecchie ore in condizioni di guida a mio parere proibitive, dove spesso non riesci a vedere oltre il parabrezza, investito da mulinelli di neve e vento che tolgono ogni possiblità di orientarsi (un po’ come la nebbia fitta).

In certi momenti ti sembra che il veicolo stia per andare fuori strada, in altri che non ci sia proprio strada, ma l’abilità della nostra guida è tale che, intorno a mezzanotte, riesce a condurci sani e salvi in un’area a circa una trentina di km da Tromso dove si vede qualche stella.

Come ci spiega, quello che conta è trovare un’area sgombra di nubi e l’Aurora viene di conseguenza. Ci dice che lui non va a caccia di aurore ma solo in cerca di un cielo senza nubi.

Ha ragione perché presto la volta celeste è solcata da colonne di luce verde.

Non dura tantissimo dal momento che  la neve e le nuvole ci raggiungono di nuovo obbligandoci a rimettere velocemente al riparo l’attrezzatura fotografica e noi stessi.

E’ stato comunque esaltante e torniamo stanchi e felici in albergo intorno alle 2:30 del mattino.

La sera dopo è tutta un’altra storia.

Finalmente dopo una giornata di nevicata le notizie sono abbastanza buone e diamo inizio a quella che si rivelerà una notte memorabile.

La proprietaria della piccola agenzia, che si occupa esclusivamente di organizzare l’avvistamento delle aurore boreali, ci conduce con un percorso di circa 40 minuti nella proprietà dei suoi genitori.

Si tratta di un appezzamento di terra in riva al mare, che appartiene alla sua famiglia da parecchie generazioni (fin da circa il 1870). In mezzo al prato, ora innevato, c’è una costruzione circolare in legno simile a una tenda indiana. All’interno, al centro, un fuoco scoppiettante circondato da scranni di legno coperti da una pelle di renna. Alle pareti una catasta di legna per ravvivare il fuoco, delle panche e dei tavoli in legno.

Ci sistemiamo lì, ma subito con cavalletto e macchina fotografica raggiungiamo la riva del mare.

Il nostro primo cielo stellato senza una nuvola, di fronte le montagne e ai loro piedi affacciati sul mare i paesini illuminati.

Mi isolo per qualche momento in un luogo appartato della spiaggia dove regna la pace, il silenzio e la serenità di una completa solitudine e respiro l’aria fredda, l’odore del mare, mentre l’oscurità intorno, a parte le luci in lontananza di qualche centro abitato sull’isola di fronte, è assoluta ed il cielo è un tappeto di  stelle, che, man mano che l’occhio si abitua al buio, distinguo sempre più numerose.

Che privilegio è viaggiare, trovarsi coinvolti in mille situazioni previste e non previste, che sempre ti fanno sentire viva e a contatto con paesaggi e incontri nuovi e spesso inimmaginabili.

Fa freddo e decido di ritornare alla “civiltà” nel capanno dove gli altri mi hanno già preceduta.

Così alla cieca finisco fuori dal sentiero battuto e sprofondo perdendo l’equilibrio nella neve fresca e alta. Per fortuna il solido cavalletto fotografico mi aiuta a rialzarmi e a riprendere la “retta via”.

Entro al calduccio del fuoco vivace e mi siedo in circolo con gli altri compagni di avventura, provenienti dai quattro angoli della terra.

Due olandesi, due cinesi, due coreani, una coppia anglo-americana, una coppia spagnola-svedese ed io  italiana con mio marito americano.

La nostra ospite è norvegese e  ci racconta davanti al fuoco, a cui ogni tanto aggiungiamo un ceppo di legno per mantenerlo allegro e crepitante, la storia della sua famiglia, che poi si confonde con quella della gente di questa regione, mentre beviamo una tazza di cioccolata calda.

Scopriamo così che qui l’elettricità è arrivata solo negli anni ’70, che l’appezzamento di terra, che ci circonda, era coltivato dalle donne di casa, che provvedevano anche ad allevare i figli, ad accudire gli animali e a mandare avanti la famiglia e la casa, mentre gli uomini erano pescatori.

Era una vita difficile così isolati senza strade di collegamento con il resto delle isole. Furono i tedeschi durante l’occupazione nella seconda guerra mondiale a costruire le prime strade di collegamento e dei tunnel ancora in uso, visto che questa era una zona strategica per gli occupanti.  

Gli uomini uscivano in mare ogni sera a pesca e la lucerna a olio, appesa nella cucina della loro casa, brillava attraverso la finestra senza tende e fungeva da faro, orientandoli e indicando loro se stavano allontanadosi troppo, trascinati dalle correnti.

Una tradizione, quella di una luce sempre accesa in ogni casa, ancora rispettata sia nelle parti più solitarie di queste isole, sia nelle cittadine o città come Tromso.

Qui del resto l’elettricità è molto a buon mercato perché ne hanno in sovrabbondanza, mentre non è così nella parte meridionale della Norvegia.

Ci hanno raccontato che la vita è carissima anche per loro e non solo per noi turisti, ma due sono le cose che hanno veramente a poco costo: una è l’elettricità appunto e l’altra sono le auto elettriche. Il governo norvegese infatti non applica tasse sulle macchine elettriche mentre ne applica di pesantissime su tutte le altre. Ovviamente in Norvegia più del 63% di auto è elettrica.

Ma torniamo alla nostra serata intorno al fuoco dove la nostra guida completa la sua storia di vita vissuta facendo cenno ai Sami.

Una sua bisnonna, se non ricordo male, era dell’etnia dei Sami, una vera e propria condanna, perché questa popolazione, il cui territorio si estende a cavallo di quattro stati (Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia), è stata  a lungo non solo discriminata ma anche pesanteente vessata. Nel tempo gli è stato proibito di usare la loro lingua ad esempio. Oggi I Sami in Norvegia sono più integrati e fanno ricorso alle loro tradizioni solo in occasione delle loro feste. Spetta  invece solo a loro la proprietà delle mandrie di renne. Non esistono in questa zona renne selvagge ma solo allevate, anche se l’allevamento ha caratteri peculiari. I Sami se ne prendono cura solo nel periodo delle nascite, per il resto gli animali sono liberi di vagare sul territorio, dove vogliono, in uno stato semi selvatico. Il risultato è un notevole risparmio per gli allevatori, che se ne occupano solo per qualche mese all’anno, pur avendone la proprietà e disponibilità.

Ne abbiamo incontrata qualcuna, indifferente al nostro passaggio, mentre abbiamo visto anche un paio di timide alci, queste selvagge, che si sono eclissate non appena ci siamo avvicinati.

La chiacchierata si allarga progressivamente e finiamo per raccontare la settimana di ciascuno a Tromso, da dove veniamo e insomma familiarizzarci un po’ di più tra noi, temporaneamente riuniti dal fascino dell’aurora boreale.

Nel frattempo la nostra ospite non cessa di uscire ogni poco per scrutare il cielo e collegarsi al telefono per avere notizie delle altre parti dell’isola.

E’ così che verso mezzanotte decide di spostarci in un’altra area più attiva e, in un batter d’occhio, smonto cavalletto, macchina fotografica e risaliamo in auto pieni di aspettative.

Questa volta ben riposte perché su una strada piena di neve nel cuore dell’isola, circondati da colline ci fermiamo ed il miracolo avviene.

Malgrado gli scienziati stiano ancora studiando il fenomeno dell’Aurora Boreale, oggi sappiamo in che cosa consiste.  Ma la parte scientifica non ha niente a che vedere con l’emozione e il fascino che si prova trovandosi davanti a un cielo in cui le luci dell’aurora boreale danzano.

In quel momento si ritorna bambini con lo stesso stupore, gli stessi occhi sgranati che solo da piccoli si sperimentano. Questo credo sia il vero miracolo dell’Aurora Boreale: l’incontro incantato con il mistero della natura, con il suo senso del magico, dell’arcano.

Una strada piena di neve, una volta celeste invasa da mille stelle, il mare a pochi passi, le colline, ombre scure della notte fonda, e improvvisamente quelle luci danzanti, quei colori cangianti nel silenzio e nella notte che ti circonda.

Ci dimentichiamo di tutto e ognuno si perde tra le luci verdi e rosse in movimento nel firmamento.

Il tempo vola e senza che ce ne accorgiamo in un attimo diventano le 2 di notte.


É ora di rientrare. Domani mattina alle 6 suonerà la sveglia perché il nostro aereo parte alle 9 per riportarci a casa. Per me non c’è comunque verso di dormire: troppa adrenalina, troppa felicità, troppa emozione. Le immagini di quanto ho vissuto continuano a scorrere anche ad occhi chiusi e solo quando sono sull’aereo mi addormento  per riaprire gli occhi sulle Alpi. Altra neve, altre montagne, questa volta quelle di casa.

Viaggiatrice