Kinderdijk, un villaggio da fiaba.

Una volta all’anno, da parecchi anni, mio marito ed io ci rechiamo a Rotterdam per un evento di un produttore software di cui siamo partner italiani. La maggior parte del tempo è dedicata agli incontri con persone provenienti da tutta Europa e a volte anche da Sud Africa, Oriente e Australia e alle sessioni della conferenza, spese nelle sale del transatlantico, riconvertito in albergo, SS.Rotterdam, con ogni tanto una boccata d’aria e uno sguardo sul porto.
Noi però ogni anno ci ritagliamo una giornata per visitare un angolo di Olanda. Un anno è stata l’Aia, un altro Delfi, un altro ancora Amsterdam. Quest’anno abbiamo scelto di andare a Kinderdijk, che ci era sfuggita in passato.

L’Olanda è piccola e in una giornata l’attraversi tutta, ma questo sito si trova davvero vicinissimo a Rotterdam (circa 15 KM).

La mattina intorno alle nove e mezza abbiamo preso un water taxi dalla nave fino al ponte Erasmus dove parte il waterbus per Kinderdijk, che puntualissimo alle dieci ha attraccato al molo e ha imbarcato i passeggeri per la tratta di fiume da compiere in circa 40 minuti.

Non era molto affollato, ma io comunque ho preferito sostare all’esterno in uno spiazzo deserto occupato solo dalla rastrelliera per le biciclette, per altro pure semi vuota.

Il divertimento perciò è incominciato subito, perchè già in attesa della partenza appena fuori dal parapetto si stava svolgendo una intensa vita e attività dei gabbiani (comuni e nordici). Era tutto un tuffarsi a pesca, un riemegere con il pesce cacciato e riprendere il volo, un fallire la pesca e riprovare, un ammarare e prendere il volo con ampi giri nel vento, oppure incrociandosi con altri uccelli in volo.


La giornata era parzialmente nuvolosa con un po’ di brezza, non fortissima, e un sole incerto che ogni tanto riusciva a prendersi la scena.

Tutta presa da questa osservazione non mi accorsi nemmeno che il waterbus stava muovendosi dal fiume Nieuwe Maas, risalendolo per raggiungere la nostra destinazione.

Allontanandosi dalla città, di cui si godeva un bel panorama dal fiume a incominciare dai ponti, il paesaggio gradualmente cambiava per lasciar spazio a rive sempre più verdeggianti, con piccoli anfratti, dove era facile vedere qulache piccolissimo attracco con una barca a vela in legno. A un certo punto ci attraversò la strada anche una chiatta tutta di legno, poco prima di passare accanto all’Arca di Noè.

Sì, incredibile ma vero, il carpentiere olandese Johan Huibers ha realizzato, lavorandoci due anni, il clone dell’arca di Noè ispirandosi alla descrizione della Bibbia :” fatti un’arca di legno resinoso; falla a celle e spalmala di bitume dentro e fuori. Ecco come la farai: la lunghezza sarà di 300 cubiti, la larghezza di 50 e l’altezza di 30. Farai un tetto all’arca e lo terminerai un cubito più in alto; a un lato dell’arca farai la porta e farai un primo, un secondo e un terzo piano”. (Genesi 6, 14-16).

In realtà questa arca costruita con legno di cedro americano e di pno norvegese è  lunga la metà e alta 1/3 rispetto a quella originale. Si tratta comunque di una superficie di 68 metri di lunghezza e 5 m di altezza . All’interno ospita statue in poliestere di coppie di animali, dalle giraffe agli elefanti, dai leoni alle zebre e ai coccodrilli. Inoltre è stato allestito un piccolo zoo di animali vivi e vegeti per i bambini, una specie di scuola galleggiante, con una sala da 50 posti dove vengono proiettati film legati al diluvio universale.

L’idea di questo originale natante è venuta a Huibers, come lui stesso racconta, perchè anni fa ha sognato che l’Olanda sarebbe stata sommersa da una gigantesca inondazione e a quel punto ha deciso di costruirla.

Superata questa singolare attrazione, come dicevo, il paesaggio diventa sempre più aperta campagna, man mano che ci si avvicina all’acquitrino che costituisce Kinderdijk.

Le rive del fiume sono coperte di canne ed erba alta, sull’acqua vicino alle sponde fluttuano ninfee e la vita acquatica è vivace con oche, germani, folaghe e svassi che tranquillamente scivolano sull’acqua tra mille riflessi di verde. Sugli argini qualche salice, molti canneti e qualche giaggiolo acquatico che aggiunge il suo giallo alle mille sfumature di verde e ocra del contesto.
Ogni tanto in volo un gruppo di oche o un cormorano.

Siamo arrivati così al famoso sito e qui vale la pena di raccontarne la storia.
SI tratta di 19 mulini risalenti al 1740 ( i primi 8  in realtà costruiti nel 1738) e preservati come erano in un’area dal 1997 sito dell’Unesco.

Il villaggio sorge alla confluenza del fiume Lek e Noord, nel bassopiano Alblasserwaard.

Ci troviamo quindi, come frequentemente in Olanda, su un terreno sotto il livello del mare, spesso alla mercè di inondazioni, smottamenti e tutto quello che il mare infuriato e l’acqua possono provocare. Gli abitanti di queste zone da sempre hanno dovuto ricorrere a tutta la loro ingegnosità e creatività per contrastare questo loro habitat così instabile. Ecco l’origine dei 19 mulini a vento, perfettamente funzionanti, che qui si trovano.

I mulini a vento servivano per drenare l’acqua dalla confluenza dei fiumi e farla riversare in un vicino bacino idrico, cioè drenavano i polder (l’area salvata dall’acqua) e coprivano la differenza di livello delle boezems, le pozze di drenaggio. 

Nei secoli i mulini a vento furono integrati con stazioni di pompaggio a vapore ed infine elettriche, fino a 20 anni fa, quando anche l’ultimo mulino a vento ha terminato il suo centenario lavoro. Oggi questo ruolo è svolto da moderne pompe a motore, ma i mulini rimangono ancora in ottime condizioni, appartengono a privati e non sono visitabili, con l’eccezione del Nederwaardmolen 2, aperto al pubblico dalla primavera a ottobre.

Abbiamo dunque potuto visitarlo con tranquillità, eravamo in un giorno feriale e, malgrado il sito sia sempre meta di turismo, era abbastanza vivibile e tranquillo e permetteva di attardarsi anche negli spazi  piccolissimi dell’interno di questo mulino. Come si può facilmente immaginare l’interno si sviluppa in verticale e si possono osservare gli ingranaggi del mulino e poi sperimentare come fosse la vita in quelle abitazioni in cui viveva il mugnaio, a guardia 24 ore del sistema di controllo delle acque, insieme alla famiglia: al piano terra il soggiorno e la camera dei genitori, con gli arredi d’epoca, al primo piano le camere dei figli, infine la soffitta, dove veniva affumicato il pesce pescato. Il soggiorno ha colpito la mia immaginazione con i pizzi alle finestre, i vasi di gerani, un’antica macchina da cucire e poi un lume, un piccolo tavolo con un tessuto colorato a copertura e quella finestra sulla pianura verde. Sopra ho ritrovato i letti che sembrano armadi, tipici dell’epoca. Infatti allora non si dormiva sdraiati ma semi seduti ed inoltre le persone erano più piccole di adesso, così questi letti corti e incassati mi fanno sempre un certo effetto di scomodità e di senso claustrofobico, ma questo dipende dalle mie abitudini moderne perchè allora erano perfettamente normali e rintracciabili anche in case di ceti anche molto più ricchi. La prima volta li avevo visti nella casa di Rembrandt ad Amsterdam e mi sembra di ricordare che compaiano in più di un quadro della pittura olandese a incominciare da Rembrandt.

Abbiamo scelto di risalire anche in barca il canale su cui si affacciano i mulini per coglierne il riflesso dall’acqua. Il paesaggio è bucolico e di una bellezza senza tempo, con queste vestigia di un mondo perduto, che si alzano sulla pianura con le pale che sembrano braccia aperte e accoglienti.

Il cielo attraversato da nubi bianche e a volte più scure, illuminato da un sole birichino che scompariva e ricompariva di continuo, si rispecchiava sull’acqua componendo quadri degni di uno qualunque dei pittori olandesi, che tanto amo. La tavolozza aveva tutte le tonalità del verde, tutte quelle del bianco e dell’azzurro e la luce ci giocava senza posa.

Ma poi c’erano gli ucelli palustri con le loro nidiate oppure in cova. Stavo camminando sul sentiero per avere un’immagine, da una diversa prospettiva, della fila di mulini,  quando ho visto un movimento tra l’erba alta. Mi sono fermata e scrutando attentamente ecco la testa di due oche che lentamente si avvicinavano ad un rivolo d’acqua sottostante e poi una dopo l’altra vi si immergevano, ma fui colta di sorpresa dal veder comparire dietro mamma e papà un paio di piccoli incerti che ne seguivano le orme.

Ma la scena più  poetica è stata quella di uno svasso sul nido.

Era bellissimo credo, fosse la femmina, ma è difficile da dire per me,  visto che entrambi i genitori covano le uova. Comunque gli occhi rossi brillavano sul bianco del viso e i ciuffi ruggine e marrone delle piume di contorno ne facevano una star di prima grandezza. Ero vicinissama al nido ma a distanza di sicurezza sufficiente per non allarmarla e così mi inginocchiai quasi alla sua altezza per riprenderla e godermi il momento di assoluta pace. Dopo un po’ sentii un verso di richiamo a cui essa rispose agitandosi un poco, ed ecco l’altro genitore (il maschio suppongo) scivolare tra le ninfee e i fili d’erba e avvicinarsi alla compagna portandole qualcosa per poi continuare a girarle intorno. La femmina con la vicinanza del maschio si alzò un attimo dalla sua posizione accovacciata scoprendo quattro uova. Un breve attimo di sgranchimento delle zampe e tornò a incubare.

Era venuta l’ora di tornare verso la città dove ci aspettava una serata di cena ufficiale.

Prima di lasciare questo racconto però va spiegata l’origine del nome di questo magnifico villaggio. Kinderdijk significa in olandese “la diga del bambino” e la leggenda vuole che si chiami così perchè nel 1420 nel giorno di Sant’Elisabetta ci fu un terribile allagamento che lasciò però asciutto il borgo.
Cessata la tempesta un abitante del paese uscì nei campi per valutare i danni.  Vide qualcosa che galleggiava sull’acqua e, spinto dalla corrente, si avvicinava, dondolando, alla vecchia diga. Si trattava di una culla e, aguzando la vista, vide un gatto che saltava avanti e indietro sulla culla mantenendola in qualche modo in equilibrio ed evitando che affondasse. Quando la culla arrivò alla diga l’uomo vide che sul fondo dormiva tranquillo un bambino.
Questa fiaba  è stata pubblicata in inglese con il titolo  “The Cat and the Cradle”. Così con questa immagine che bene si accorda all’atmosfera idilliaca del luogo chiudo la cronaca di una giornata deliziosa nel cuore acquatico dell’Olanda

Viaggiatrice