Istanbul: ponte sospeso tra oriente e occidente

Solo la parola Istanbul evoca un immaginario infinito. Istanbul è molto di più di una magnifica città. Istanbul è la favolosa Costantinopoli, che ci parla di decadenza dell’impero romano, di ascesa e tramonto dell’impero ottomano, che ci racconta il mistero e il fascino dell’oriente pur avendo fondamenta in occidente, ci ricorda viaggi avventurosi, declini dolorosi, scontri di civiltà, sussulti di modernità, ritorno al passato.

Cambia di continuo, eppure conserva traccia di ogni cambiamento e, come molte città dal passato così ingombrante è parte integrante del paese, ma nello stesso tempo è diversa dal resto della Turchia e unica. L’ho amata tantissimo nella seconda metà degli anni 80 e inizio degli anni 90, mi ha un po’ rattristato ritrovarla negli ultimi anni, ma comunque non sono riuscita a restare insensibile al suo fascino, che trascende il momento in cui la visiti.

Ci si perde in un caleidoscopio di immagini e di luoghi che non si può ordinare in un itinerario, perché razionalizzare e ingabbiare questa città sarebbe follia, il suo fascino sta nei contrasti, nelle commistioni di civiltà, nei paesaggi, negli angoli nascosti e negli stati d’animo, spesso malinconici. Istanbul è chiamata la porta d’oriente, ma è vero anche il contrario: “porta dell’occidente” e forse il filo conduttore per girarla è proprio il continuo interscambio di culture che si integrano o si respingono in un continuo divenire.

L’esempio più eclatante, simbolo di quanto fin qui ho detto è Aghia Sofia. Cattedrale cristiano bizantina ai tempi di Costantinopoli (a partire dal IV secolo), sede del patriarcato di Costantinopoli, divenne chiesa ortodossa, poi convertita in chiesa cattolica dai crociati per divenire poi moschea sotto l’impero ottomano, fino a che fu sconsacrata e convertita in museo nel 1931, per essere di nuovo aperta al culto mussulmano nel 2020.

Splendida architettura bizantina, splendidi mosaici, splendida cupola, continua a generare ammirazione, pur ricorrentemente assurgendo a pomo della discordia per chi a tutti i costi vuole farne un baluardo di una civiltà contro l’altra, invece di considerarla uno splendido esempio di commistione e assimilazione delle diverse culture religiose. Ma non si contano gli esempi di convivenza o  opposizione tra mondo orientale e occidentale, tra cristiani e mussulmani, ma anche tra gli infiniti segni tracciati dal tempo nell’arte, nei commerci, in tutte le espressioni umane a cui si possa pensare.

Cosi’ si sprofonda nel mondo romano bizantino nella Cisterna Basilica (in turco Yerebatan Sarnıcı, “cisterna sommersa”)  che forniva acqua al palazzo imperiale. Il suo nome in turco può anche significare “palazzo inghiottito” (Yerebatan Sarayı)  ed è una vera e propria cattedrale sotterranea, costituita da 336 colonne (ioniche e corinzie ma anche qualcuna dorica e qualcuna non decorata) alte 9 metri. Il materiale impiegato è una malta speciale impermeabile e due delle colonne della volta poggiano su due teste di medusa rovesciate.

La prima volta che la visitai ebbi un’esperienza irripetibile. Era il 1985, la Cisterna non era aperta al pubblico ed erano in corso dei lavori di ristrutturazione, in vista di una successiva apertura ai visitatori (avvenuta nel 1987). Non so come fu ma il guidatore del taxi, che avevamo preso per girare Istanbul quel giorno, con il quale avevamo chiacchierato nel suo approssimativo inglese, ci fece un regalo. Ottenne (non so come) che ci lasciassero entrare e fare un giro, sia pur non completo, del luogo. Entrai nel silenzio e nella scarsa illuminazione di queste colonne, che si riflettevano sull’acqua, camminai per le passerelle, mentre si diffondeva proveniente da non so dove, musica classica. Immaginate:  solo io  e mio marito in questo vasto luogo, con la musica di sottofondo e questo gioco di colonne fino ad arrivare alla medusa rovesciata. La luce sembrava di candele (ovviamente era elettrica) ma la suggestione fortissima.

Ci sono tornata moltissimi anni dopo, quando la cisterna era diventata uno dei luoghi più visitato dai turisti. Mi è piaciuta sempre molto, ma la magia di quella prima volta non c’era più. Un luogo evocativo di incontro tra oriente e occidente si trova poi nel mercato delle spezie (Mısır Çarşısı ossia il Bazar delle Spezie). Le spezie sono state, da sempre, l’oggetto del desiderio degli europei e Costantinopoli era uno dei porti dove era possibile procurarsele.

Anche qui mi precedevano i ricordi  di un’altra volta e la memoria me lo dipingeva come un antro delle meraviglie. Oggi il mercato delle spezie è sempre coloratissimo e profumatissimo ma le spezie sono impilate in montagnette colorate dentro contenitori di vetro o plexiglas, la frutta secca impilata ordinatamente e anche se il profumo è penetrante e il colpo d’occhio accattivante, non è più il guazzabuglio di sacchi di iuta pieni di polveri colorate e accatastamenti confusi di ogni ben di dio. È arrivata l’igiene, la modernità, tanto più sicura quanto meno pittoresca, ma, si sa, gli occhi della memoria tendono a idealizzare i ricordi e la realtà non può mai competere con essi.

In realtà il mercato vale una visita perché ancora si possono vedere i bastoncini di cannella, che si mescolano alle mille spezie in polvere, mentre poco distante le albicocche secche, i pistacchi, i melograni, le foglie di te, i datteri e i dolci pieni di miele si contendono gli spazi. Avventure dell’olfatto, del gusto e della vista ti fanno comunque dimenticare il tempo, mentre abili venditori ti tentano con le loro trattative orientali e le loro rappresentazioni quasi teatrali, che tanto mi incantano.

Nell’ideale percorso alla ricerca degli  incontri/scontri tra oriente e occidente un’altra esperienza speciale è la zona della torre di Galata. Questa torre di pietra, costruita dai genovesi nella cittadella, loro colonia nel XIV secolo, sembra un po’ incongrua con le sue fattezze medievali, un’architettura inusuale anche nel mix di stili di Istanbul. Il quartiere è oggi un vivacissimo luogo turistico pieno di caffè e di giovani, che ne fanno un luogo animato sia di giorno che di sera. Ma a qualche passo di distanza da questa torre così  europea, ci si può trovare in un mondo affatto diverso. Spingi un cancello e ti trovi in un cortile con a sinistra entrando un piccolo cimitero e a destra un gazebo. Qualche gatto randagio fa gli onori di casa e ti puoi sedere a riposare nella tranquillità.
Siamo nella sede della Confraternita di Galata, che, oltre ad essere un museo sulla cultura dei dervisci e del sufismo, ricco di testimonianze e di cimeli storici, ogni domenica ospita lo spettacolo della danza dei dervisci.

I dervisci sono asceti mistici raccolti in confraternite appunto, che fanno capo al sufismo, una corrente islamica caratterizzata da comunità che si riuniscono per incontri spirituali. Tra i dervisci in Turchia l’ordine dei Mevlevi è famoso per la danza turbinante, come via per raggiungere l’estasi mistica.

Sono un po’ riluttante a chiamare questa danza-dimostrazione, con molti elementi di rito, incluso quello del saluto, “spettacolo”, perché è qualcosa di più, anche se non è l’originale danza religiosa (che dura 4 ore ed è molto più complessa).

Infatti questa versione semplificata offre molti spunti di attenzione, che ne fanno qualcosa di diverso da una “performance” teatrale, direi che si tratta più di un’esperienza, non mistica ovviamente, ma in qualche modo coinvolgente. Nel  pieno della danza poi il turbinio di questi dervisci diventa quasi ipnotico e alla fine esci da quella sala con la sensazione di aver vissuto quasi un sogno.

Un altro aspetto interessante è la gente. La popolazione di Istanbul è un continuo rimpallo tra cultura mussulmana e mondo occidentale e mediterraneo. Forse oggi un po’ meno di una volta ma l’abbigliamento, specie delle donne, va dalla minigonna, al vestito mussulmano con il capo coperto, al Niqab Hijab Burqa, ovvero un mantello nero che lascia scoperti solo gli occhi (questo capo di abbigliamento era quasi scomparso negli anni 80/90 mentre è prepotentemente ricomparso nella Istanbul degli anni dopo il 2000).

Come donna occidentale sono molto colpita da questi usi e costumi e tante sono state le domande che mi hanno attraversato la mente camminando per l’Istiklal Caddesi, il viale pedonale principale che sfocia nella conosciutissima piazza Taksim, dove si trova il monumento alla Repubblica, oppure nel cortile della moschea blu. Incrociare per strada uno sguardo intenso e misterioso di una donna giovane e avvolta nel nero mi inquieta, assistere a due donne in burka che si fotografano davanti alla moschea mi fa domandare come faranno a riconoscersi nelle fotografie (deformazione da fotografa), vedere sul traghetto una signora, che si copre con larghi occhiali da sole neri  l’unica parte del corpo esposta, mentre io in maglietta cerco di espormi alla luce solare e al soffio della brezza sul Bosforo mi interroga, visto che tante sono anche le donne di Istanbul che come me hanno costumi occidentali. In ogni caso forse il mio sguardo più perplesso e anche un po’ sconcertato fu quando affacciandomi alla finestra del mio albergo al ventesimo piano vidi nella piscina dell’hotel sottostante una ragazzina di 14/15 anni nuotare vestita.

Chi arriva a Istanbul non può non fare una tappa alla Moschea Blu situata a un passo dall’ippodromo di Bisanzio costruito sotto Settimio Severo. Un’altra convivenza culturale che in teoria ti obbliga a un salto mentale tra i due mondi, ma in realtà, passeggiando da un punto all’altro, diventa uno scivolare dolce e affascinante in due epoche, che più lontane non potrebbero essere ed invece si ritrovano vicine  per una di quelle magie della storia, che qui sono ad ogni passo.

La  piazza dell’ippodromo, completata da Costantino, divenne centro di riunioni governative, fu poi abbandonata durante una delle crociate per riprendere vita dopo la caduta dell’impero romano d’oriente (1453) sotto l’impero ottomano, continuando la sua doppia funzione di luogo di gare e di assembramenti politici. Oggi in quell’immenso spazio restano pochi segni dell’antica destinazione d’uso, un paio di obelischi, una colonna. Curioso che nel luogo dove c’erano le carceri, all’estremo nord dell’ippodromo,  oggi si trovi la “fontana dell’imperatore Guglielmo”, regalata  dall’imperatore tedesco Guglielmo II al sultano Abdul-Hamid II nel 1901, durante una sua visita in Turchia,  per riparare al dispetto di avere asportato da Pergamo l’altare di Apollo (ora a Berlino). Se fossi stata il sultano non sarei stata molto contenta del cambio.

Abbandonando l’impero romano e l’impero tedesco in pochi passi si entra in un ambiente affatto diverso: la Moschea Blu, costruita dall’architetto Ottomano Sedefkar Mehmed Agha a partire dal 1587. È decisamente un’opera grandiosa e di grande impatto. È circondata dal verde di alberi e aiuole fiorite e i suoi minareti svettano nel cielo (di un blu intenso quando ci sono andata io l’ultima volta), ma è l’interno che ti colpisce al cuore: la cupola e le pareti della moschea sono ricoperte da 20.000 piastrelle turchesi (da qui il soprannome della moschea) provenienti dalla città di Nicea, l’attuale İznik. 200 vetrate e giganteschi lampadari appesi al tetto ne illuminano l’interno. Il chiaroscuro, che ne deriva, crea un effetto fantastico sulle pareti blu e le dimensioni fanno il resto. Purtroppo è molto affollata di turisti e pellegrini e questo va a svantaggio del raccoglimento e della pace, che invece permetterebbero di goderla e darle il suo pieno valore.  

Infine tra le tantissime cose, molte delle quali  inevitabilmente si trascurano parlando di Istanbul (ci vorrebbe un volume non un semplice articolo), l’ultima che voglio ricordare è il Bosforo  con i suoi meravigliosi palazzi ottomani che vi si affacciano, da quello di Dolmabahçe  al Palazzo di Beylerbeyi e poi al Topkapi, il palazzo ottomano per eccellenza, solo per citarne alcuni, che ti rimandano alla corte del sultano, con le sue mille opulente sale, con le sontuose facciate dove di volta in volta il design contiene elementi di stili eclettici dal Barocco al Rococo al  Neoclassico, che insieme all’architettura tradizionale Ottomana producono una sintesi di grandissimo impatto, per una volta armonizzando oriente e occidente.

Ma il Bosforo è anche attraversato da ponti moderni e in particolare dal ponte che unisce la parte asiatica a quella europea di Istanbul, che incombe sul palazzo Beylerbeyi creando un contrasto visivo tra la struttura aerea di acciaio e cemento armato del ponte, tra l’altro sempre a tutte le ore trafficatissimo, e la tranquilla eleganza ottocentesca del palazzo con i suoi stucchi, i suoi stemmi dorati e i suoi giardini che si affacciano sull’acqua del canale attraverso porte traforate e decorate. Forse è vero quello che scriveva Alphonse De Lamartine “Se a un uomo venisse concessa la possibilità di un unico sguardo sul mondo, è Istanbul che dovrebbe guardare.”

Fabrizia Cataneo

Viaggiatrice