Berlino e la sua isola dei musei

Sono arrivata a Berlino ben conscia che la città durante la seconda guerra mondiale è stata distrutta per oltre l’80%, quindi gran parte della sua storia è stata spazzata via.

Sapevo bene anche che questa città ha subito una lacerazione che, a parte Gerusalemme, non mi sembra nessun’altra metropoli abbia sopportato. Il muro ha diviso non solo il territorio urbano, ma ha fatto da spartiacque tra due culture e civiltà. Da un lato Berlino est si è adeguata necessariamente al mondo comunista e russo con di fatto uno stop al suo sviluppo, dall’altro Berlino ovest ha cavalcato l’avanzata del nuovo, che ha travolto il dopoguerra occidentale con frenesia di tecnologia, architettura, libertà artistica e sociale.

La caduta del muro ha messo due metà completamente estranee a confronto e ha imposto alla Germania una corsa all’amalgama dei due corpi cittadini per permettere all’est di tenere il passo con l’ovest.

Oggi questo percorso non è più visibile e la città è omogenea, ben tenuta, moderna, con molto verde e ampi viali.  L’architettura moderna ha preso il posto del passato e in molti casi c’è la mano dei grandi architetti contemporanei come ad esempio Renzo Piano.

Praticamente del passato più antico è sopravvissuto solo un piccolissimo quartiere medievale, oggi isola pedonale e turistica.

La seconda guerra mondiale ha comunque lasciato qualche segno visibile.

Il travagliato passato si respira al Check Point Charlie, oggi trasformato in luogo di raduno di curiosi e turisti.

Ci sono arrivata con un cielo nero, che rapidamente si è trasformato in violento temporale ed ha aggiunto drammaticità a quella striscia di terra (immortalata in decine di film) dove l’attraversamento poteva significare (e quasi sempre così era) rimetterci la vita.

La foga con cui i turisti si facevano selfie non mi ha contagiata, anzi ha prevalso un senso di malinconia, che mi ha fatto archiviare come fuori luogo l’idea di uno scatto di me davanti alla garitta di controllo.

Ma è la porta di Brandeburgo il vero compendio della storia sopravvissuta di Berlino e merita un discorso  a sé.



Commissionata dal re Federico Guglielmo II di Prussia in segno di pace, divenne suo malgrado il simbolo di guerra e divisione. L’inizio della sua costruzione in stile neoclassico risale al 1788 e nel 1868 alla edificazione originale furono aggiunte due basse ali.
É composta da 5 archi e la quadriga posta sulla sua cima subì una serie di traversie, di danneggiamenti e restauri e trovò finalmente il suo assetto solo a partire dal 1991.

Il muro di Berlino passava di qui e per molti anni si arrivava alla porta e si  saliva fino alla sua piattaforma di osservazione, per guardare  al di là della Cortina di ferro, oltre la terra di nessuno che separava, geograficamente e politicamente, Berlino est da Berlino ovest.

Durante questo periodo (1961- 1989 ) la Pariser Platz, dove sorge la porta, rimase chiusa e pattugliata dai soldati per impedire la fuga da est verso ovest, divenendo una “striscia della morte”.

Qui  il 12 giugno 1987, Ronald Reagan incalzò il suo illuminato avversario, con le parole: “Signor Gorbachov, abbatta questo muro!”, Il discorso, faceva eco alla famosa frase del sindaco di Berlino Ovest Richard von Weizsäcker – “fintanto che la Porta di Brandeburgo rimarrà chiusa, la questione tedesca resterà aperta” . Il discorso era rivolto ai cittadini di Berlino ovest, ma fu udito anche al di là del Muro.

Precedentemente un altro presidente USA era arrivato qui: John Fitzgerald Kennedy e in quella occasione i sovietici appesero grandi striscioni rossi su di essa per impedirgli di guardare a est.

Con tutto questo bagaglio storico oggi visitare la porta fa decisamente un certo effetto e noi la vedemmo di giorno con la piazza animata da tanta gente di cui una gran parte giovani, che le restituivano l’allegria e la pace per cui era stata concepita.

Mio marito aveva anche scelto per la nostra ultima sera di permanenza il ristorante dell’Adler Hotel, le cui vetrine si affacciano proprio di fronte alla porta illuminata. Anzi il cameriere vedendo la mia macchina fotografica, mi disse che amava molto riprenderla nella luce del primo mattino o del tramonto e mi mostrò alcuni suoi scatti fatti in uno spazio deserto al sorgere del sole. Molto belle e scenografiche. Commentammo come la natura dia sempre un tocco pittorico, che rende ogni volta diversa qualunque realizzazione umana.

A proposito di ristoranti, il giorno del nostro arrivo a Berlino era il mio compleanno e mio marito aveva prenotato un locale per la cena, di cui non mi aveva voluto anticipare niente. Si chiama the Grand. Arrivando credemmo di aver sbagliato indirizzo, perché non c’è un‘insegna e la porta è anonima, ma entrando lo scenario cambia . Si tratta di un club, ristorante e bar dalla luce soffusa. Ti ritrovi in una reception con un bancone di legno e sulla destra la sala (una delle sale) del ristorante. La mia prima impressione è stata lo stile Art Nouveau o Jugendstil alla tedesca.

Sicuramente l’ambiente era raffinato, con un grandissimo  lampadario a corona al centro, che mi piacque tantissimo, divanetti di pelle nere con tavoli dalle tovaglie bianchissime, tutto con una luce bassa e molto d’atmosfera. Il locale si trova in un vecchio edifico restaurato. Il nostro tavolo era nell’angolo sotto una vetrina contenente oggetti in cristallo e argenti primi del ‘900 in fondo alla sala. La cena fu all’altezza della prima impressione e il servizio altrettanto. Il cameriere a noi assegnato era sardo, quindi abbandonammo subito l’inglese per passare all’italiano e  ci raccontò che il locale era poco frequentato dai vacanzieri, ma molto invece apprezzato per gli incontri di lavoro internazionali e anche dai berlinesi, perché defilato e non sui circuiti turistici principali.

Insomma la serata fu alla grande e molto ben disposta iniziai la mia scoperta della città.

Ammetto che nonostante tutto quanto raccontato fin qui, non è scattato con Berlino quel feeling che ti lega ad un luogo emotivamente e quasi fisicamente, oltre che razionalmente.

 Ma c’è una eccezione: l’isola dei musei.

Qui sulla riva del braccio Kupfergraben del fiume Sprea sono stati accentrati i 5 musei più importanti di Berlino. In quest’isola di cultura, dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità, si trovano alcuni dei pezzi d’arte più importanti al mondo.

Dopo la caduta del Muro di Berlino, nel 1999 venne deliberato il restauro globale dell’area museale, il cosiddetto piano generale per l’isola dei musei. In questo progetto era prevista  la ricostruzione del Neues Museum e il ripristino delle altre gallerie.

Ogni singola struttura rivolta in una direzione diversa avrebbe dovuto essere collegata in modo da formare un tutto unico.

Arrivando dunque ci si trova davanti alla James-Simon-Galerie, un edificio moderno opera dell’’architetto (“archistar”) britannico David Chipperfield.

Prima di parlare di questo ingresso in questo tempio dell’arte, bisogna osservare che il nome James Simon si riferisce al cittadino ebreo di Berlino (1851-1932),appassionato collezionista d’arte, da cui i musei berlinesi hanno ricevuto ampie collezioni. Il suo più famoso lascito all’Isola dei Musei si trova sotto la cupola nord del Neues Museum: il busto di Nefertiti, di cui parlerò a breve diffusamente.

Ma torniamo all’ingresso e all’area che accoglie i visitatori e a cui si può accedere tramite collegamenti interni sia al museo di Pergamo che al Neues Museum, della cui ricostruzione e restauro si è occupato di nuovo  lo studio di David Chipperfield Architects.

Senza avere ancora visto niente  fui comunque subito catturata da questo primo approccio e, dopo essere salita su quella lunga scalinata in pietra bianca , dominata da una foresta di colonne moderne, che creano ampi spazi luminosi e danno un senso di infinito respiro, arrivando in cima e girandomi verso l’esterno mi trovai come su una terrazza sul fiume che scorre di fronte, mentre sulla destra l’imponente opera “dialoga” con la costruzione del Neues museum, la cui edificazione originaria risale all’ architetto prussiano Friedrich August Stüler a metà del XIX secolo.

Ho trovato su “area arch” questa descrizione perfetta, secondo me :“Oltre a un auditorium da 300 posti e a uno spazio per mostre temporanee la James-Simon Galerie ospita oggi i servizi di accoglienza, tra i quali biglietteria, guardaroba, bar, servizi igienici e libreria, per i visitatori dei musei della Museuminsel (Pergamon, Bode Museum, Altes Museum, Neues Museum, Alte Nationalgalerie)……..
Ed è proprio il dialogo che ha saputo instaurare con gli altri edifici il tratto distintivo del progetto. La purezza del bianco, l’inserimento a livello planimetrico nel sito, la scansione regolare del colonnato conferiscono al volume un’impronta classica ma allo stesso tempo un’immagine contemporanea, un’identità forte, rigorosa e severa ma che non prevarica il delicato equilibrio gerarchico instaurato tra gli edifici. I riferimenti formali sono evidenti. Il colonnato di ordine gigante e l’imponente scalinata d’accesso, oltre all’uso della pietra negli esterni, rimandano espressamente agli edifici adiacenti, mentre l’utilizzo di calcestruzzo gettato in opera per gli interni è sicuramente una scelta di rottura.”  

Mi sono subito sentita a mio agio e ho affrontato con entusiasmo il primo museo che avevamo prenotato e la cui visita avevamo desiderato: “il museo di Pergamo”

Purtroppo l’altare di Pergamo è chiuso al pubblico da più di dieci anni per restauro, ma nel museo ci sono talmente tante opere che ti dimentichi in fretta del dispiacere di non poter accedere all’altare.

Infatti è un percorso nel mondo mediorientale antico, incominciando dalla porta di Babilonia e dalla via processionale di accesso, ricostruita qui con quanto ritrovato dagli scavi di Robert Koldewey. La collocazione e l’impatto sono grandiosi ed è impossibile non restare annichiliti dalla bellezza e maestosità della porta. Chissà che impressione doveva fare quando si trovava sul suo sito originale! Chissà che cosa si provava a trovarsi davanti una simile architettura nella terra mesopotamica, arrivando dalle pianure che si estendono tra Tigri ed Eufrate! Non entro nella storia di questo capolavoro, limitandomi a citarne la meraviglia e invece soffermandomi su alcune considerazioni che feci qui, ma mi accompagnarono per tutto il percorso. Infatti è impossibile non porsi una domanda annosa: questi tesori sono stati razziati dai loro siti di origine, sono stati sottratti alle popolazioni a cui appartenevano, ma sono anche in questo modo stati preservati dalla rovina del tempo, delle guerre, dei turbolenti accadimenti di cui le terre di origine sono state ricorrentemente teatro.

Gli investimenti profusi hanno dato la possibilità di essere ammirati da tutto il mondo.

Eppure sarebbe giusto vederli nel loro contesto. La guerra, come ben sappiamo, e la distruzione avvengono dovunque e non è detto che siano più al sicuro qui che altrove. Per contro non si possono ignorare le tragedie della distruzione dei Buddha di Bamiyan o quanto è successo a Palmira.

Insomma c’è una risposta giusta a tutte queste ragioni che si intersecano? Oggi più che in passato la discussione sulle sottrazioni e trafugamenti di opere d’arte è molto sentita e dibattuta. È un argomento che travalica il singolo museo e si estende a tutta l’arte conservata nelle raccolte  di tutto il mondo, ma qui è particolarmente viva perché le gallerie sono interamente costituite da opere provenienti da aree molto lontane e le cui rovine soffrono della decurtazione di pezzi importantissimi per la comprensione dei siti archeologici.

A pochi passi dalla porta di Babilonia, superando un arco, ci si trova davanti alla porta del mercato di Mileto e qui non ho dovuto fare grandi sforzi per immaginarla nel suo sito originale, perché a Mileto, sulla costa egea della Turchia, ci ero stata anni fa e la ricordo assai bene.

Salendo per una scalinata ci si trova poi nel museo di arte islamica: una infilata di Mihrab, che sono nicchie all’interno di moschee ma anche di edifici privati, che indicano la direzione dove si trova la Mecca. Sono finemente decorate, diverse l’una dall’altra, eleganti e di grande valore estetico.

Si tratta nel complesso di una immersione nell’islam artistico e in una cultura che testimonia la grande civiltà di queste popolazioni e anche lo spirito di pace, che animava questo mondo, che negli ultimi decenni noi abbiamo conosciuto solo nelle sue derive estremiste e oscurantiste, finendo per dimenticarne l’immensa levatura.

Alla fine del percorso ci si trova nella stanza di Aleppo. Si può entrare in pochi alla volta ed è un bel regalo, perché la stanza merita di essere vissuta per qualche momento, oltre che guardata.

Siamo al cospetto di un ambiente tutto ricoperto di pannelli di legno dipinti, che faceva parte di una abitazione di un mercante cristiano di Aleppo (Siria), molto facoltoso, che qui riceveva i suoi ospiti spesso per ragioni d’affari. La camera (siamo intorno al 1600) aveva lo scopo di mettere a proprio agio i visitatori e di favorire lo scambio di contrattazioni o semplicemente di offrire ospitalità.

Sono restata a bocca aperta figurandomi come venissero fatti accomodare i nuovi arrivati, a cui sicuramente avranno offerto un tè, immancabile in tutto il Medio Oriente, oppure una bibita a base di succo di limone aromatizzata con i profumi delle spezie, adatte a rinfrescare dalla calura esterna, ho immaginato vesti sontuose, barbe curate, lunghe trattative, che sono un’arte in tutto l’oriente, accordi finalmente stipulati.

Insomma di nuovo un mondo scomparso e di grandissimo fascino che quelle pareti e quei dipinti facevano rivivere.

Si potrebbe parlare davvero a lungo di ogni sala di questo e degli altri musei di quest’isola magica, ma mi limito ad aggiungere ancora una storia di questa mia visita: quella al Neues Museum.

Il Neues Museum è il museo egizio di Berlino e contiene una delle più importanti collezioni al mondo di pezzi e manufatti risalenti all’antico Egitto ed è famosissimo per uno di questi: ovvero il busto di Nefertiti. La regina della XVIII dinastia, moglie del faraone di Amenofi IV (Akhenaton) . Lei e il marito posero in essere una rivoluzione religiosa che  tentò di imporre il culto dell’unico dio Aton, il disco solare. Primo tentativo di religione monoteistica, che naufragò e non sopravvisse ai due fondatori.

Nelle sale dedicate a questa parte di storia egizia ci sono splendide opere, ma tutto scompare e si concentra nella sala dove è esposto il busto di Nefertiti. Le parole non possono nemmeno lontanamente descrivere come ci si senta trovandosi di fronte a questa meraviglia. In un ambiente quasi buio una lama di luce colpisce la teca centrale dove solo questo busto è contenuto.

Si tratta di una delle più misteriose e affascinanti figure femminili dell’antichità, ma direi di tutti i tempi.

Nefertiti nasce a Tebe nel 1366 a.C., diventa la sposa di un re con una visione non compresa dal suo popolo. Il suo tentativo di cambiamento morrà con lui. Nefertiti collabora alla realizzazione del sogno e gli sta accanto. Sopravvive al marito e sembra che abbia tentato di esercitare la sovranità in prima persona.

Il suo nome significa “la bella che è venuta” e questo ha fatto ipotizzare che si trattasse di una principessa straniera.

Fin qui la cronaca storica, ma questo busto dello scultore Tutmosi, in pietra calcarea dipinta, racconta una storia più universale.

Ero emozionata entrando nella sala con pochissima gente e sotto lo sguardo vigile degli addetti alla sorveglianza, ossessionati dal fatto che non si scattassero foto.

Finalmente ero davanti a quel busto che avevo visto in mille immagini, esaudivo il desiderio di vederla dal vivo.

Come poche altre opere d’arte questa ha una potenza dirompente, almeno per me. Mi sono ritrovata pietrificata davanti a quel volto, non di una bellezza astratta ma anzi così vivo da sembrarti allo stesso tempo contemporaneo e antichissimo. Non riuscivo a muovermi da lì. Quel viso misterioso, carismatico, espressivo, bellissimo, senza tempo, parlava un linguaggio che superava i secoli. Una donna con tutto il suo fascino, la sua intelligenza, la sua indecifrabilità stabiliva un contatto, quasi un legame, un incantesimo da cui non sapevo o volevo sciogliermi.

Il tempo passava ed io restavo incantata lì. Confesso che ho scattato una foto col cellulare, perchè volevo la mia immagine, il mio ricordo di quella visita. Ovviamente la mia macchina Nikon era guardata a vista dai guardiani, che per questo forse non hanno prestato attenzione al cellulare.

Non capisco questi divieti, ma non era per polemica o disobbedienza, era perché in qualche modo volevo possedere quell’immagine. (Proprio perchè è stata presa a dispetto di un divieto, ho deciso di non inserirla nelle immagini che corredano questo racconto)

Me ne andai finalmente, uscii dalla sala e visitai il resto delle stanze dedicate ad Akhenaton, ma poi ci tornai di nuovo quasi a salutare quell’enigma di sguardo, quella espressione intensa, serena e nello stesso tempo densa di significati, di interiorità.

Veramente un grandissimo artista Tutmosi che ha saputo cogliere tutto questo in questo busto che continua a sbalordire secolo dopo secolo.    

Voglio fermarmi qui, anche se tanto altro si potrebbe raccontare sui musei, tante altre opere di grande valore, ma sono queste le cose che per me sono state fuori dal comune ed uniche.

Viaggiatrice