A fine settembre decidemmo di fare un giro in Toscana, di cui conoscevo benissimo alcune parti e altre per niente. La maggior lacuna era la val d’Orcia, un’area dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco, oltre ad essere un parco naturale.
Abbiamo dunque dedicato qualche giorno all’insieme di collline, vigneti, oliveti, borghi medievali e rinascimentali, protetti da una serie di vincoli ambientali, che permettono ancora oggi angoli di silenzio, natura, arte e deliziosa qualità di vita.

Avevo letto che “La campagna toscana è stata costruita come un’opera d’arte da un popolo raffinato, quello stesso che ordinava nel ‘400 ai suoi pittori dipinti ed affreschi: è questa la caratteristica, il tratto principale calato nel corso dei secoli nel disegno dei campi, nell’architettura delle case toscane. È incredibile come questa gente si sia costruita i suoi paesaggi rurali come se non avesse altra preoccupazione che la bellezza.” (Henri Desplanques) ed eravamo pronti a farne esperienza con un certo entusiasmo.




La prima scelta vincente fu il luogo, che ci avrebbe fatto da casa per tre notti: un antico casolare toscano, ristrutturato, su una collina della località Poggiarello.
Circa due chilometri di strada sterrata, tra alberi, con gli immancabili cipressi, e colline, collegano San Quirico D’Orcia a questa tenuta che porta il nome antico di San Quirico: “Sce Queric”.
Dalla nostra camera potevamo spaziare su uno scenario paradisiaco. Davanti a noi un grande vigneto, che degradava verso una ondulata terra d’ocra e poi di nuovo verde, con un gruppo di cipressi che nascondevano un lontano agriturismo, mimetizzato nel paesaggio ed, in lontananza, la collina con Montalcino.
La luce dell’alba penetrava attraverso le piccole finestre, di cui lasciavamo aperti gli scuri e, immancabilmente, dopo un minuto di torpore ancora sotto le coperte, scendevo dal letto per affacciarmi su un mondo incantato, silenzioso, via via più luminoso.
Una rapida doccia ed ero pronta con la mia macchina fotografica a raggiungere la campagna che mi circondava per respirare l’aria del primo mattino, cogliendo la rugiada o le gocce della pioggia notturna, che impreziosivano fiori, foglie ed erba.
Mi teneva compagnia un cucciolo di tre mesi. In realtà la dimensione era di un cane adulto, ma lo spirito e il comportamento denunciavano la sua giovane età. Curioso, effervescente, affettuoso, egocentrico, Baloo (questo il suo nome) era il compagno ideale in questa passeggiata. Era divertentissimo con la sua passione per i rami e i pezzi di legno, che scovava e portava vicino a me non per darmeli, ma per giocarci sotto il mio sguardo, calamitando la mia attenzione e quella della mia macchina fotografica.

Una mattina poi fu eccezionale. Mentre faceva chiaro la nebbia mattutina avvolgeva ogni cosa, dandoci l’impressione di esssere in un luogo fatato ed evanescente. La foschia, man mano che il sole sorgeva, si diradava lentamente facendo emergere macchie di paesaggio in un continuo cambio di visuale. Non sapevo più a quale finestra affacciarmi, perchè il fluido divenire del mondo esterno mi dava l’impressione di perdere una vista irripetibile.
Arrivavano così le 8:30, quando la colazione era servita ai dieci ospiti del luogo, che ha solo cinque camere doppie, quindi cinque coppie, per la maggior parte straniere, che, nella saletta preparata per questo scopo, godevano di un ambiente accogliente con una porta finestra sul giardino.
Un ragazzo simpatico e allegro faceva gli onori di casa offrendoci spremuta di mandarino “le arance non sono ancora buone”, omlette al formaggio, con una fetta di pane toscano e un filo di olio, e poi yogurt, brioche, dolcini e i salumi della tradizione toscana.
Era un rito la colazione così come qualche chiacchiera con Elisa, la proprietaria, che, mentre bevevamo un ultimo caffè, ci dava qualche dritta sul nostro percorso della giornata.
Finalmente eravamo pronti ad avviarci tra gli infiniti borghi di questa valle.

Per la verità arrivando da Milano, il primo giorno, quasi al tramonto, avevo già avuto un anticipo di che cosa potevamo aspettarci. Infatti, sulla strada da Pienza verso San Quirico d’Orcia avevo visto l’indicazione per la cappella della Vitaleta.
Facemmo quindi subito una deviazione, dato che il tempo, molto variabile e incerto, in quel momento offriva una schiarita, che preannunciava un tramonto degno di essere ricordato.
Arrivati dove si doveva lasciare la macchina, feci di corsa la distanza sulla stradina sterrata, che conduceva alla cappella, in modo da arrivarci prima che il sole scomparisse del tutto.
Fu una idea geniale perchè fu il più bel tramonto di cui potemmo godere durante la nostra permanenza. Il sole scendeva dalla parte opposta alla cappella, offrendoci la vista delle nuvole incendiarsi, mentre i cipressi all’orizzonte sembravano neri giganti che scomparivano a grandi passi nella notte. La cappella invece veniva illuminata dalla luce morente, ergendosi sulla cima del colle, circondata da qualche altro cipresso, silenziosa e raccolta.
La chiesetta (a navata unica) è di proprietà privata. Tutta in pietra domina una distesa di piani degradanti a perdita d’occhio. Sembra un’ancora in un mare di campi e di terra, dove lo sguardo si ferma e, forse, anche lo spirito, quando ti affacci a sbirciare all’interno (non si può entrare ma la porticina è aperta e puoi guardare dentro) e ti trovi davanti a un ambiente spoglio con in fondo, dietro l’altare, una Madonna bianca e blu attribuita ad Andrea della Robbia.
Ma torniamo al nostro primo giorno effettivo nella valle.
La tentazione di fermarsi ogni momento era forte, perchè praticamente ad ogni curva si presentava un paesaggio mozzafiato, fatto di nuvole in continuo cambiamento, di luce altrettanto cangiante e di distese di verde e ocra, punteggiate da oasi di cipressi, querce, olivi.
Gli alberi qui sono alti, possenti, eleganti, monumentali, ma anche vivi, vere e proprie opere d’arte, disseminate come in posa tra le colline.
Queste icone del luogo sono quello che rimane di immensi boschi che in passato ricoprivano l’intero territorio.

Sono strafotografati e noti i cipressi di San Quirico. La passeggiata per vedere da tutti i punti possibili il più fortunato e famoso di questi insiemi è percorsa di continuo da stranieri provenienti dall’Asia come dalle Americhe o dall’Europa, quasi fosse un museo a cielo aperto. E lo è: io l’ho percorso in compagnia del solo soffio del vento e del tepore del sole, con negli occhi la luce morbida, avvolgente e sempre mutevole prodotta dall’interazione tra nuvole, luce e brezza, avendo come punto di riferimento quell’agglomerato di cipressi vicini uno all’altro, quasi si facessero compagnia stando in disparte a confabulare e cospirare tra loro.
In basso scorre la strada provinciale, con un traffico non intensisimo ma continuo, eppure quasi per miracolo di quella strada non ti accorgi, viene fagocitata e resa invisibile dalla bellezza del paesaggio arcaico, che tiene completamente la scena. Solo quando ci torni camminando sull’ultima discesa ti ritrovi nella civiltà moderna, di cui ti eri completamente dimenticata fino a quel momento, tanta era la sintonia con la natura.
Ma in questo habitat ci sono anche i tanti borghi abitati e preservati come dovevano essere nell’antichità.




Incominciammo da Bagno Vignoni dove si incontra, nella piazza principale del paese, una vasca costruita in epoca rinascimentale, piena di acqua calda, l’unica piazza centrale in Italia occupata interamente da un bacino termale. La vasca si eleva sull’antica fonte, conosciuta fin dai tempi dei romani. Suggestivo e romantico, il centro cittadino è la maggior attrazione del paese ed intorno alla vasca si trovano la loggia (loggia di Santa Caterina), la chiesa e il palazzo del Rossellino del XV secolo. Vi ha sede anche una antica locanda (la locanda del Leone) ancora oggi un ottimo ristorante, in cui abbiamo cenato tornando qui la sera.
Intanto però la mattina, dopo esserci fermati in questa area affascinante e bevuto un caffè nella temperatura quasi estiva di fine settembre, ci siamo inoltrati nelle stradine colorate di fiori e negozietti, dirigendoci verso l’uscita del centro storico, pedonale, per ritrovare la nostra auto. Camminando, sono stata punta da un paio di zanzare e, siccome non avevo pensato di portarmi il repellente, mi sono fermata in una erboristeria, raggiungendola con alcuni gradini in discesa. Mi si è aperto davanti un antro profumato di mille spezie e di mille contenitori, dove una gentile e sorridente ragazza mi ha dato un liquido alla citronella con la caratteristica non solo di allontanare gli insetti, ma, se per caso fossi stata già punta, di alleviare immediatamente il prurito e il bruciore. Quella magica boccetta mi ha accompagnato non solo in Toscana ma anche a Milano, dove la stagione anomala ha fatto proliferare zanzare e moscerini fino al tardo ottobre. Il profumo è decisamente un po’ invasivo ma molto più piacevole dei repellenti chimici, che si trovano in farmacia.
Non era ancora destino che ce ne andassimo. Infatti, poco più avanti ho addocchiato una scaletta ripida con in cima una porta senza insegne e senza vetrina alcuna, solo una scritta sul muro “Librorcia”. Mio marito mi ha guardato e subito ha detto “ho capito andrai a visitare la libreria, ti aspetto qui facendo qualche foto e curiosando un po’”. Senza por tempo in mezzo eccomi a salire le scale e a varcare la soglia di una specie di soggiorno di casa, con un ampio divano e una poltrona su un tappeto, che ricopriva in parte il pavimento di coccio, un caminetto di lato e libri dappertutto. In realtà la disposizione era meno casuale di quanto sembrasse, come scoprii di lì a breve, e l’impatto era coloratissimo, caldo e accogliente. Chi era piuttosto arcigno e burbero era il libraio, un bell’uomo alto e dai capelli brizzolati, che aveva appena alzato gli occhi dalla cassa, dove era seduto quando ero entrata. Sulla cassa brillava un cartello dedicato ai lettori più piccoli: “ leggere è crescere” . Inutile dire che il luogo mi aveva conquistato, così mi avvicinai al distinto signore chiedendogli se c’era un angolo riservato ai libri sulla zona. A quel punto si alzò e mi accompagnò gentilissimo al lato opposto della libreria incominciando a mostrarmi uno ad uno i principali volumi dedicati alla val d’Orcia e alla sua storia, con competenza e dovizia di particolari. Ne scelsi due “ A quel tempo – Un’infanzia tra Buonconvento e Montalcino” e “’Novecento: verità e segreti delle donne della val d’Orcia”.
Andando alla cassa per pagare gli dissi che era bello vedere una libreria un po’ diversa dal solito, io sono abituata alle grandi catene, le piccole librerie a Milano scompaiono una dopo l’altra e la risposta fu: “ è un mestiere difficile e poco remunerativo spesso anche dal punto di vista delle soddisfazioni” . Come dargli torto. Lo salutai e uscii avendo ottenuto anche un largo sorriso.
Per ultima una brevissima sosta al parco dei mulini, che si trova a pochi passi dal parcheggio.
L’acqua termale, che si raccoglie nella vasca centrale del paese, andava in passato ad alimentare una serie di mulini disposti sul ripido ciglio, degradante verso il fiume ed oggi è possibile visitare le rovine, arrivando sul bordo dello strapiombo per vedere in fondo nella gola l’Orcia, che scorre nel suo letto, mentre dall’altra parte del fiume, in alto sulla collina, domina Castiglione d’Orcia.
Ancora una nota su Bagno Vignoni, che ne aumenta la suggestione. Infatti, questo era nel medioevo uno dei luoghi dove si riunivano i vari percorsi della via Francigena, perchè qui si trovava il ponte sul fiume Orcia, punto obbligato di attraversamento.
La via Francigena evoca pellegrini di un’epoca antica provenienti dalla Francia e dalla Germania e diretti a Roma. Siamo in epoca medievale più precisamente intorno al VII secolo. I Longobardi erano in guerra con i bizantini e vi era l’esigenza di collegare il Regno di Pavia e i ducati meridionali in un modo sufficientemente sicuro. Di qui la scelta di un percorso sino ad allora considerato minore, che valicava l’Appennino in corrispondenza dell’attuale Passo della Cisa, e, volendo evitare le zone in mano bizantina, la via proseguiva per la Valle dell’Elsa per arrivare a Siena, e quindi attraverso le valli d ‘Arbia e d’Orcia, raggiungere il territorio laziale dove ci si immetteva nella via Cassia che portava a Roma.
Gli antichi selciati romani, che la via ripercorreva, erano stati sostiutiti da insiemi di sentieri, tracce e piste battute dal passaggio dei viandanti, che in genere si ramificavano sul territorio per convergere in corrispondenza dei centri abitati, dove si trovava alloggio per la notte, oppure presso alcuni passaggi obbligati come valichi o guadi (Bagno Vignoni era uno di quelli). Il percorso poi variava per cause naturali (straripamenti, frane), per modifiche dei confini dei territori attraversati e la conseguente richiesta di gabelle, per la presenza di briganti. Il fondo strada veniva lastricato solo in corrispondenza degli attraversamenti dei centri abitati, mentre nei tratti di collegamento prevaleva la terra battuta.
Quando la dominazione Longobarda lasciò il posto a quella dei Franchi crebbe anche il traffico lungo la via che diventò il principale asse di collegamento tra nord e sud dell’Europa, lungo il quale transitavano mercanti, eserciti, pellegrini.
Tra la fine del primo millennio e l’inizio del secondo, la pratica del pellegrinaggio assunse un’importanza crescente. I luoghi santi della Cristianità erano Gerusalemme, Santiago de Compostella e Roma, e la Via Francigena rappresentò lo snodo centrale delle grandi vie della fede. Infatti, i pellegrini provenienti dal nord percorrevano la Via per dirigersi a Roma, ed eventualmente proseguire lungo la Via Appia verso i porti pugliesi, dove s’imbarcavano verso la Terrasanta. Viceversa i pellegrini italiani diretti a Santiago la percorrevano verso nord, per arrivare a Luni, dove s’imbarcavano verso i porti francesi, o per proseguire verso il Moncenisio e quindi immettersi sulla Via Tolosana, che conduceva verso la Spagna. Il pellegrinaggio divenne presto un fenomeno di massa, e finì per essere determinante nella realizzazione dell’unità culturale che caratterizzò l’Europa nel Medioevo.

Anche oggi è rimasto un percorso (come il cammino di Santiago del resto), che appassionati di tutte le provenienze seguono in ben altre condizioni di viaggio (muniti di GPS, app e cellulari, ma sempre sempre desiderosi di fare esperienza (in bicicletta o a piedi) di queste aree con una così lunga tradizione. Ci siamo imbatturi più volte durante il nostro viaggio in indicazioni della via Farncigena, ad esempio all’ingresso di San Quirico d’Orcia, e sempre ho percepito il respiro della storia su queste pietre e su queste terre. Soprattutto, guardandosi inrtorno, è facile immaginare le piccole storie di individui in cammino, quelle che non vengono tramandate nei secoli. Un bambino che corre, una madre stanca, un mercante preoccupato, una ragazzina che si affaccia all’amore.
Tornando a Bagno Vignoni, ci eravamo, come al solito. fermati più del previsto e ci ripromettemmo di arrivare finalmente a Pienza.
Pienza è un gioiello dell’architettura rinascimentale, rimasto tra l’altro intatto nei secoli.
Fu voluta da Enea Silvio Piccolomini, poi Papa Pio II. Egli trasformò il suo luogo natio: Corsignano, un villaggio piccolo e poco rilevante, in una città utopica, che voleva incarnare i principi e la filosofia di età classica e del Rinascimento italiano. Piccolomini aveva i mezzi economici e una sufficiente influenza per realizzare questo progetto, che affidò al Rossellino sotto la guida di Leon Battista Alberti. Nel giro di tre anni venne alla luce la piazza con i bellissimi palazzi che ancora si possono ammirare: innanzitutto la residenza papale (Palazzo Piccolomini) poi la cattedrale e il comune, il tutto affacciato su una area solenne ed armonica tutta in travertino. Sul lato della piazza si trova anche un bel pozzo chiamato il “pozzo dei cani”
Pienza si erge sulla cima di un colle e quindi, avanzando di qualche passo sul lato della chiesa dalla parte di Palazzo Piccolomini, ci si trova, superata una cisterna, a dominare la valle. Lo sguardo vaga lontano, un’anticipazione di quello che ci aspetta entrando nel Palazzo.
La visita di questo edificio è obbligatoriamente semi guidata, ovvero ti accompagna una ragazza, che ti indica il numero da cercare sull’audioguida, che poi ti ascolti per conto tuo. Da un lato un sistema un po’ impersonale e scarno ma, dall’altro, puoi seguire la visita con il tuo ritmo e in base ai tuoi interessi.
Le sale meritano di passare qualche minuto a immaginare la vita in questi ambienti, ma la cosa che più mi ha colpito è il portico all’ultimo piano del palazzo con vista sulla valle e sui giardini pensili.
I giardini sono veramente stupefacenti, per la posizione, per la luce, per il contrasto con l’elegante residenza, per il silenzio che ti avvolge mentre cammini tra le siepi di bosso, con un pozzo al centro e, sullo sfondo a sinistra, la chiesa, mentre, di fronte, delimitata da un muro ricoperto di rampicanti, la piana sottostante.
Per fortuna non ci sono regole al tempo che puoi passare dentro al giardino e quindi te lo puoi assaporare, dando spazio alla fantasia ma anche alla realtà, che si manifesta davanti ai tuoi occhi stupiti da tanta bellezza e pace.

Così scrive l’architetto Jan Pieper , cittadino onorario di Pienza dal 2006 per i suoi studi sulla città (autore di “Pienza Il Progetto di una visione umanistica del mondo”) “Il vero tema architettonico di Palazzo Piccolomini è il suo rapporto con la natura e con il paesaggio. Dal loggiato a sette assi che sul lato posteriore si affaccia sul paesaggio, si gode una vista straordinaria della Valdorcia e del monte Amiata. Al piano terra del palazzo è inserito in questo panorama un giardino di forma quadrata cinto da mura con al centro il pozzo. Quello di Pienza è il primo giardino pensile del Rinascimento. Tale situazione conferisce a questo luogo una valenza simbolica, architettonica, paradisiaca, di vita armoniosa in mezzo alla natura.”
Nei Commentarii, anche Pio II descrive il magnifico panorama, il monte Amiata, la valle dell’Orcia e i “prati verdeggianti e i colli erbosi nelle stagioni buone, i campi ricchi di messi, i vigneti; sulle rupi scoscese si vedono le rocche i castelli, i bagni Vignoni e monte Pesio (Cetona), più in alto Radicofani, che è il punto da cui sorge il sole d’inverno”
Uscita di lì entrai nella Cattedrale dell’Assunta. Ci troviamo qui nel cuore del pensiero di Papa Pio II. Infatti, le indicazioni, che dette al Rossellino per la progettazione della nuova cattedrale, erano aderenti alla sua visione estetica e filosofica. Il Papa era affascinato dalle linee gotiche delle chiese francescane, specie di Assisi. Inoltre, avendo trascorso molto tempo in Germania, conosceva le Hellenkirchen tedesche (Chiese a sala) e quindi volle che la sua chiesa avesse le tre navate della stessa altezza.
Nel complesso la chiesa si presenta semplice e con linee sobrie, arricchita da finestre gotiche che la illuminano, anche troppo, e da cinque tavole pittoriche di maestri senesi tra cui una del Rossellino.
In verità mi sono sentita in sintonia più con l’esterno della cattedrale che con l’interno. Piazza Piccolomini è davvero la realizzazione di un’idea di bellezza proporzionata, che conquista e trasmette equilibrio anche in mezzo alla folla di turisti e passanti. Abbiamo trascorso del tempo seduti a un tavolino di un bar tabacchi proprio di fronte alla chiesa e, mentre sorseggiavamo un caffè e un bicchiere d’acqua fresca (faceva piuttosto caldo), rilassandoci e riposandoci un attimo dai saliscendi, a cui i borghi costruiti in cima ai colli obbligano, gli occhi erano in piena attività, perchè non si poteva staccarli dai mille particolari, che i palazzi e la chiesa stessa offrivano.
Per tornare alla macchina ci inoltrammo poi in una strada laterale silenziosa e deserta, bagnata dalla luce del pomeriggio, che avanzava verso il tramonto, abbellita da fiori alle finestre, rampicanti sulle antiche mura di pietra con imposte verdi e marroni.
Altri vagabondaggi ci aspettavano Il giorno dopo quando ci dirigemmo verso l’abbazia di Sant’Antimo a poca distanza da Montalcino.

Innanzitutto il clima era totalmente diverso. Il cielo era coperto di nuvole gonfie di pioggia, che si rovesciava a intermittenza rendendo drammatico il paesaggio e fangoso il terreno.
L’abbazia si vedeva in distanza in mezzo a campi di un verde reso brillante dall’acqua appena caduta, con qualche sprazzo di giallo autunnale, tra olivi e e solitari cipressi.
Abitata da secoli dai monaci benedettini, la leggenda vuole che la sua fondazione si debba all’imperatore Carlo Magno, quindi al IX secolo. Di certo sappiamo che esisteva nell’814 quando ricevette beni e privilegi da Ludovico il Pio, successore di Carlo Magno.
Nei secoli ha sofferto di periodi di decadenza e abbandono e i suoi possedimenti sono stati decimati ripetutamente. È solo a partire dal 1870, che inizia un lungo processo di restauro che la ha portata allo splendore attuale.
Avvicinandosi alla chiesa e al convento non si può far a meno di notare le targhette che indicano il nome delle piante tra cui si cammina.
L’abbazia ha una lunga tradizione di produzione e cura di piante medicinali, che risale a “Santa Ildegarda di Bingen, badessa benedettina vissuta tra il 1098 e il 1179, una delle figure femminili più importanti del Medioevo. La santa Ildegarda condusse uno studio tanto approfondito quanto concreto della Natura e dei suoi impieghi in medicina e suddivise le malattie dell’uomo in tre categorie. Ad ogni gruppo di malattie corrispondono delle erbe curative”, che si possono ancora trovare nell’orto di Santa Ildegarda.
La farmacia benedettina merita una sosta. Di fianco alla chiesa, in fondo a un chiostro, che si affaccia sulla valle, è allestita nella antica sala del tesoro.
Malgrado il tempo tenebroso, sia pur con qualche schiarita, e il fango, passeggiare nel silenzio e nella bellezza della natura con davanti o di lato questo monumento a un’antica spiritualità “un’officina delle anime dove si ricoverano gli sperduti, si ritemprano in questa penombra, si raccolgono i relitti, si aggiustano i rottami” era un piacere per lo spirito, gli occhi e la mente.
Entrando poi nella chiesa ecco la Cappella Carolingia, la cripta, il loggiato superiore, capitelli e colonne, che mantengono intatta questa sensazione di bellezza, di isolamento, di serenità.
Ci perdemmo un po’ tra queste terre, piante e nuvole e lasciammo quasi con dispiacere il luogo diretti a Montalcino. La strada deliziosa tra le colline, a cui stavamo facendo l’abitudine, ci offrì una terrazza sopraelevata, con possibilità di sosta e qualche panchina per ammirare Montalcino e il panorama. Ci fermammo, scendemmo e seduta su quella panchina assistetti al mutamento radicale di clima e paesaggio. Il sole fece capolino tra le nuvole e nel giro di qualche minuto con prepotenza si impose trasformando la valle e la cittadina in un caleidoscopio di riflessi, ombre e luci.

Finalmente ci decidemmo ad arrivare a Montalcino, a parcheggiare e ad avventurarci tra le vie di questo magnifico borgo, lasciando per ultima la rocca.
Quando si parla di Montalcino la mente corre al vino, e giustamente, perchè il Brunello di Montalcino è uno dei migliori vini italiani. La sua composizione e formula risale al 1888 quando Ferruccio Biondi Santi per primo ebbe l’idea di eliminare i vitigni della tradizionale ricetta del Chianti, come il Canaiolo e il Colorino, usando invece solo la varietà Sangiovese.
Sarebbe però riduttivo associare solo al, pur ecellente vino, il borgo, perchè ha molto , ma molto di più da dire, a incominciare dalla sua storia, che ha origine nell’epoca etrusca.
Montalcino è oggi un borgo medievale rimasto pressocchè uguale dal XVI secolo, si staglia sulla cima di un’alta collina con una vista di incredibile bellezza, un vero spettacolo di colline sinuose, ulivi pittoreschi, querce secolari e strade serpeggianti, che si snodano nella campagna tra vigne e campi.
L’antica cittadella è circondata da mura possenti e dominata da una rocca risalente al 1361. I bastioni sono ancora percorribili permettendo agli occhi di spaziare fino al monte Amiata, attraversando le crete senesi, e tutta la val d’Orcia, fino alle propagini della Maremma.
Camminando per le strette e pittoresche viuzze poi ad ogni passo si apre uno scorcio tra le case, le chiese o i palazzi, che quel panorama te lo fa gustare da un diverso punto di vista, quasi inserito nel contesto urbano e armonizzato con esso.
La giornata si era trasformata per effetto della luce solare e, nell’avanzare del pomeriggio si coglievano tutte le sfumature calde delle pietre, dei fiori, della visuale ad ampio respiro. Il tempo finì per non avere più alcuna rilevanza, l’orologio si era fermato su quella cima, dove turisti (non tantissimi per fortuna) di tanti paesi stranieri con sguardi ammaliati si inoltravano silenziosi per lo stupore o si attardavano a uno dei tanti localini seduti a gustare un bicchiere di vino.
A malincuore tornammo lentamente verso San Quirico d’Orcia e verso la nostra dimora, da cui sapevamo avremmo potuto in lontananza vedere ancora una volta l’insieme di case, storia, torri e campanili, che stavamo lasciando.
Vorrei chiudere questa passeggiata in Val d’Orcia con una nota riservata al cibo.

Dopo la golosa e abbondante colazione del mattino non pranzavamo mai anche per lasciare più tempo ai nostri vagabondaggi, ma la sera ci dedicavamo alla cultura della tavola, perchè come sempre, ma soprattutto in Italia, il cibo è parte della tradizione e dell’essenza di un luogo.
Citerò solo una delle nostre soste culinarie ovvero quella della prima sera.
Avevamo prenotato in un locale a San Quirico d’Orcia di fianco a una antica fonte. Si chiama Fonte alla Vena e ci è piaciuto moltissimo. Con sorpresa ho ricevuto un messaggio da loro qualche giorno fa in cui mi si diceva che “si è svolta ieri in Franciacorta, 8 Novembre, la presentazione della nuova guida Michelin 2023 e con grande gioia per noi siamo stati confermati anche questo anno tra i 25 ristoranti toscani “Bib Gourmand”, ovvero la faccia sorridente dell’Omino Michelin che si lecca i baffi, il pittogramma che indica un ristorante che propone una piacevole esperienza gastronomica, con un menu completo ad un ottimo rapporto qualità prezzo!!!” Riportava anche le parole dell’ispettore della Michelin ovvero: ”Lungo la strada che porta al pittoresco centro storico, nelle sale semplici e dall’atmosfera informale viene servita un’ottima cucina, con un’originale ricerca sui piatti di terra toscani, orientata in particolare su quelli più poveri e tradizionali, come il quinto quarto, la cinta senese e le paste fresche. Sapori intensi e avvolgenti, un posto in cui si tornerebbe in continuazione.”









Non saprei descriverlo meglio, aggiungerei solo che parte del piacere lo dobbiamo anche al cameriere che ci ha fatto da guida tra i piatti della tradizione, raccontandoci aneddoti e consigliandoci i vini.
Per questa volta il nostro tempo in Val d’Orcia era finito e ci aspettavano Cortona ed Arezzo.
Arrivederci valle dei miracoli spero di tornare presto.
Fabrizia Cataneo