Il titolo di questo articolo mi è stato ispirato da una parola usata durante la lotta per i diritti civili contro l’apartheid in Namibia. In quell’incredibile periodo storico i locali furono obbligati a trasferirsi in una zona assegnata dal Governo dei “Bianchi” nei sobborghi di Windhoek e come simbolo della rivolta, era stata utilizzata la parola Katutura che significa “il posto dove non voglio stare”.
Per quello che invece riguarda la mia esperienza di viaggio in Namibia non posso che usare la parola in Herero che ha il significato esattamente opposto: Matutura: Il posto dove vorrei stare.
Voglio iniziare dalla fine, dal sapore che mi è rimasto dentro dolce e romantico, un sapore che sa di meraviglioso, un viaggio ricco ed intenso emozioni che può offrire un posto unico al mondo: la Namibia. Era tempo che desideravo fare questo viaggio e da esperto viaggiatore quale credo di essere mi ero preparato nel migliore dei modi: letture, guide e documentari, un salto nei negozi specializzati per acquistare il giusto abbigliamento per questa avventura.
Parto alla conquista della terra dei diamanti, una terra ricca di contrasti, deserti, animali, fiumi, persone, albe e tramonti, questa immensità è talmente tanta, che mi fa quasi paura. Il volo scivola via senza che me ne possa accorgere, gonfio di entusiasmo arrivo all’alba e come benvenuto ho un piccolo anticipo che mi toglie il fiato di quelle che nei prossimi giorni saranno le albe africane infuocate. Sbarco e mi rendo conto che la modernità con cui sono abituato a vivere, qui non è ancora arrivata, nessun problema, faccio a meno. Mi incammino dopo essere sceso dal piccolo volo e durante il tragitto sulla pista, mi imbatto in una moltitudine di innocue cavallette che mi faranno compagnia per buona parte del viaggio. Incontro Johann, la mia guida.
Mi trovo di fronte un omone, ex militare e guardia del corpo del Presidente, nella classica tenuta color kaki con gilet multitasche, bermuda, scarponcini, cappello e l’immancabile coltello nella fondina. Mi piace, sono contento, ho già trovato un amico. Partiamo verso nord direzione Okonjima, dove ha sede l’AfriCat Foundation, una fondazione per la protezione e il reinserimento dei ghepardi e leopardi e di altri felini. Lasciamo la strada asfaltata svoltando ad ovest. Rimango attonito dall’altezza dei formicai che in alcuni casi superano i tre metri e che sfilano ai lati della pista. il paesaggio inizia a modificarsi e la pianura lascia il posto a formazioni rocciose dai colori che vanno dal rosso al viola e poi al marrone che guardandolo meglio sembra addirittura metallizzato. Il tutto circondato da una vegetazione che spazia in un innumerevole tonalità di verde.
Dopo un’ora e mezza di sterrato arriviamo a destinazione: Okonjima Bush Camp.
In un attimo sono pronto per l’escursione con la jeep del lodge, alla guida un preparatissimo ranger. Partiamo alla ricerca dei Leopardi. Dopo alcuni fuori pista e qualche falso allarme, come un dio pagano, all’improvviso, ci compare un meraviglioso esemplare coricato su un alto ramo, l’emozione ha la meglio su di me e quasi non riesco a scattare neanche una fotografia. Durante l’escursione veniamo contattati da un altro ranger che ci informa di un secondo leopardo pronto a sferrare l’attacco ad un branco di antilopi si sta aggirando in una zona non troppo lontana da noi. Ci precipitiamo e vedo quello che tanta gente – forse – ha solo visto in televisione. Una vera caccia, un inseguimento che mi paralizza, e in un attimo assisto alla fine della povera antilope. Il sangue pompa veloce, ma questa volta è il mio. Un’agitazione indescrivibile mi accompagnerà per il resto della giornata, difficile uscire da questo “stato di tranche”. Ci addentriamo sempre di più nel bush e tra un ramo e un albero che si spaccano all’incedere della Jeep succede quello che i ranger temono, ma senza mai dirlo apertamente: buchiamo una gomma.
Tutti giù dalla jeep, in cerchio intorno alla macchina, ognuno di noi con una torcia accesa cerca di fare luce. Il ranger a cambiare la gomma, paura e sudore si mischiano all’adrenalina che inizia a scendere solo quando risaliamo sul mezzo e partiamo per rientrare al campo. Dopo cena sono strafelice, mi incammino verso il mio bungalow, fatico a ricordarmi la strada, sembrano tutte uguali…. le camere anche se sono poche e distanziate, 80 /100 metri una dall’altra. Prima di andare a dormire, mi godo dieci minuti alla luce delle stelle che qui sembrano caderti addosso. Sono tantissime. In Italia non ne avevo mai viste tante, scorgo nitidamente la via lattea e mi beo di tutta quella bellezza. Dormo il sonno di un bambino, un sonno pesante, appagante e senza sogni. Un sonno ristoratore.
Massimo Malavasi