Gerusalemme, un luogo di pace perennemente in guerra

In questi giorni la situazione, di nuovo aggravatasi in Medio Oriente, mi ha riportato al mio viaggio del 2001. Era l’inizio di aprile e  al tavolo di un ristorante una coppia di amici ci parlava del loro prossimo viaggio, programmato per Pasqua in Israele, e mi proposero di aggregarmi a loro. Mio marito che in quel periodo sarebbe stato negli USA appoggiò l’idea ed io ne fui felicissima.

L’amico con cui cenavamo era un Cavaliere del Santo Sepolcro e con la moglie e gli altri cavalieri si recavano regolarmente in Terra Santa in visita, in pellegrinaggio o a incontrare le autorità religiose del  luogo, ma quell’anno il manipolo di cavalieri in partenza era veramente ridotto (5 persone in tutto) per via della situazione complicata e ritenuta non sicura in Israele.

In effetti il clima sociale e politico a Gerusalemme e in genere in Israele e Palestina era rovente. Si era nel mezzo della seconda Intifada scatenata nel settembre del 2000 da un gesto di Ariel Sharon, allora capo del Likud, ritenuto provocatorio dai palestinesi. Sharon si era recato sulla spianata del tempio insieme a una delegazione del suo partito e a un drappello cospicuo di soldati in tenuta antisommossa, con l’intenzione di rivendicare la sovranità ebraica o israeliana sul luogo.

La Spianata delle Moschee o del tempio è un luogo da sempre reclamato sia dagli Ebrei, perché è il  luogo dove sorgeva il Tempio di Salomone, sia dai musulmani, essendo il punto da cui Maometto sarebbe asceso al Paradiso su di un cavallo alato con testa umana. Sulla spianata oggi si trova la Cupola della Roccia, la bellissima moschea con la cupola d’oro che domina il posto, mentre del tempio ci sono solo scavi archeologici sotto il piano dove sorge la moschea ed il sopravvissuto “Muro del Pianto”.

La rivolta palestinese e il gesto di Sharon avvenivano in un momento di altissima tensione tra le popolazioni dovuto al recente fallimento dei negoziati di Camp David. Malgrado i mesi passati,  la crisi non accennava a risolversi, anzi era al massimo ad Aprile 2001, tanto è vero che l’intera spianata era chiusa e pattugliata dall’esercito. Ma c’era anche un altro evento quell’anno che rendeva la Pasqua particolare: la coincidenza che la data della Pasqua fosse la stessa per tutte le religioni cristiane, evento molto raro. Non era la mia prima volta nei luoghi santi, ma era la prima volta in Israele. Infatti moltissimi anni prima, ancora studentessa, ero stata in Medio Oriente, ma Gerusalemme era ancora divisa a metà e io ci ero arrivata dal Libano e dalla Giordania, quindi avevo visto solo la metà giordana  e non avevo potuto andare dall’altra parte (Israele non permetteva il transito a chi aveva un timbro di un paese arabo sul passaporto).

Questa volta arrivammo a Tel Aviv e superammo i mille controlli incrociati e capillari (molto comprensibili). Partimmo subito per Gerusalemme, o meglio per la città vecchia di Gerusalemme. La città nuova infatti era praticamente “off limits” per i pochissimi turisti presenti, perché ritenuta a troppo alto rischio. Eravamo dunque nella città vecchia ospiti di un albergo di religiosi per pellegrini.

La sistemazione era perfetta: stanze di una semplicità monacale tra spesse mura e silenzio di notte nelle vie strette della città antica.  Sembrava che il ventunesimo secolo fosse rimasto fuori dall’antica città santa e ne fui immediatamente affascinata. Il perimetro era blindato da polizia ed esercito, che controllavano gli accessi, e le telecamere erano ovunque, ma a parte questo il luogo era come sempre di una bellezza e di una serenità miracolosa, date le circostanze.

Tutta la città vecchia è  in pietra (pietra di Gerusalemme) color dorato. Gerusalemme si trova nella parte più elevata dell’altipiano a  754 metri  e la cittadella, circondata da mura e da sette porte di accesso, è per la gran parte in questa pietra, che si armonizza con il paesaggio brullo e nello stesso tempo brilla nel sole con sfumature diverse a seconda dell’ora.

Al mattino prestissimo uscivo dal nostro albergo, perché volevo percorrere  quelle stradine e saliscendi  quasi deserti e immersi ancora nel silenzio e nei colori dell’alba appena sorta. Ogni tanto in lontananza una anziana donna con il capo coperto camminava lentamente appoggiandosi a un bastone, oppure due monache si affrettavano parlando tra loro. Molte strade erano completamente vuote e ti ispiravano  un silenzio meditabondo e reverenziale.  In nessun posto al mondo il peso dei secoli è così presente come in questa città.

La densa e ininterrotta storia, incredibilmente multietnica, si armonizza tra le pietre e, camminando, il mondo romano dei tempi di Gesù, il mondo israelita, il mondo ottomano di Solimano il Magnifico (a cui si deve la ricostruzione della più bella porta delle mura di Gerusalemme, la porta di Damasco), il mondo cristiano dei Crociati, tutto si fonde in uno spazio senza tempo che ti avvolge e ti intimidisce, riempiendoti di ammirazione e facendoti sentire un granello di polvere dell’infinito divenire della storia.

Ma poi con l’inizio della giornata le vie si animavano e in un attimo brulicavano di gente. Il mercato arabo o di Mahane Yehuda o Shuk, comunque lo si voglia chiamare, era un’esplosione di colori, di contrattazioni, di merci: dalle spezie, alla frutta, alle stoffe, ai tappeti e via cosi’ di stradina in vicolo, la pace e il silenzio perduto nel caleidoscopio di bancarelle, ma anche di persone di tutte le provenienze: arabi, ebrei ortodossi, copti, armeni, turisti scorrevano in un fiume di vita e di attività, tra i richiami dei negozianti, tra religiosi di tutti gli ordini e confraternite, tra donne con il capo coperto e la tunica araba, tra suore o laiche occidentali.

Arrivando al Santo Sepolcro l’atmosfera cambiava di nuovo. Visitandolo l’atmosfera era di raccoglimento, ma non potei fare a meno di notare le contraddizioni del luogo. Un posto sacro per tutta la cristianità, dove il senso di rispetto e di preghiera dovrebbe dominare e in molti casi domina, ma anche conteso da tutte le varie correnti religiose, che si litigavano, come bambini, lo spazio all’interno e le ore a disposizione per le cerimonie. Nella chiesa del Santo Sepolcro  si dividono lo spazio per dire messa ortodossi (ma tra gli ortodossi ci sono i greco-ortodossi, i copti, i siriaci), cattolici e armeni. Tra le comunità vigeva l’insofferenza e quell’anno, che la Pasqua capitava nello stesso giorno, erano fissati turni ed ore diverse per le cerimonie pasquali (in particolare la domenica di Pasqua), ma questo non dirimeva del tutto l’antagonismo.

Mi venne in mente a questo punto che, per contro, le chiavi della chiesa sono custodite da generazioni da una famiglia araba, come raccontano Franco Cardini  e Simonetta della Seta nel loro saggio “Il guardiano del Santo Sepolcro”. Uscendo dalla chiesa, così carica di significati, e girandomi a guardarne l’ingresso dalla piazzetta antistante  mi risuonavano nella mente le parole di questo libro e l’immagine evocata era suggestiva e rasserenante  “E’ l’alba di un giorno qualunque a Gerusalemme. Nel cortile del Santo Sepolcro, compare un uomo di mezza età con un voluminoso mazzo di chiavi. Wajeeh Nusseibeh e la sua famiglia sono a Gerusalemme dai tempi della conquista araba e, da secoli, sono gli unici custodi delle chiavi del Santo Sepolcro, grazie al fatto che non appartengono a nessuna delle centoventi religioni della terra Santa”.

 Oltre  ai miei vagabondaggi in città c’erano una serie di incontri e cerimonie previste, che mi misero in più stretto contatto con i cattolici di Terra Santa. Innanzitutto fummo a pranzo dal Patriarca dei latini di Gerusalemme che era il Gran Priore dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro. Il patriarca allora era Michel Sabbah, un cattolico palestinese con residenza israeliana ed il primo arabo ad essere nominato patriarca latino a Gerusalemme.  Il pranzo fu interessantissimo, come lo fu l’incontro con  Padre Giovanni Battistelli, il francescano nominato nel 1998 Custode dei luoghi Santi per la cristianità. Il punto di vista e l’analisi attenta di chi viveva quella realtà e la condivideva ogni giorno era prezioso per cercare di avere un quadro di un mondo, che resta incomprensibilmente complicato e denso di interazioni, commistioni e infinite aspirazioni di pace in un contesto di guerra.

Avemmo anche la fortuna che ci venisse offerta l’opportunità di attraversare il confine ed arrivare a Betlemme  in Palestina. Fu possibile grazie al fatto che il patriarca ci mise a disposizione la macchina del patriarcato e ci fece accompagnare da un sacerdote del patriarcato. Differentemente non sarebbe stato realizzabile per nessuna ragione attraversare quel confine così ad alta tensione. Fu un evento importante, perché ci permise di vedere anche l’altra faccia della medaglia.

Prima tappa alla chiesa della Natività, assolutamente deserta, dove mi presi tutto il tempo per visitarla, mentre la prima volta avevo fatto la coda per entrare e mi erano stati concessi solo pochi minuti all’interno, perché la fila doveva scorrere. Subito dopo ci recammo a Beit Jala di fronte a Betlemme.

La città arabo cristiana della Cisgiordania, il cui nome probabilmente deriva dall’ aramaico e significa “tappeto d’erba”, era tutto tranne che un tappeto d’erba. Avevamo di fronte una distesa desolata di case diroccate dai bombardamenti e dagli attacchi armati, una vita di povertà e di sopravvivenza, ma soprattutto di totale insicurezza.

Qui mi accadde un fatto che ricordo nitidamente ancora adesso.  Stavo guardando dal ciglio della strada, un po’ sopraelevata, la terra di nessuno brulla fino a dove lo sguardo incontrava altri insediamenti e un po’ di verde e alzai la macchina con il teleobiettivo per scattare una foto. Mi venne incontro di corsa il nostro accompagnatore che, agitato, mi invitò ad abbassare subito la macchina fotografica. Senza capire lo feci e la mia faccia doveva evidentemente essere un punto interrogativo, perché si affrettò a spiegarmi che nella macchia di verde che vedevo dall’altra sponda vi era un carro armato mimetizzato e che quello era il confine e, se avessero preso il mio obiettivo per un arma, mi avrebbero sparato senza por tempo in mezzo. Wow! Me ne stetti buona buona e misi via la macchina fotografica.

Il rientro in Israele non fu proprio tranquillissimo ma riuscimmo a passare e a ritornare in una zona più sicura. Devo ammettere che non avendo mai visto da così vicino una zona di guerra , ero rimasta piuttosto scossa, toccando con mano vite perennemente a rischio , con il giornaliero pericolo di trovarsi la propria abitazione distrutta, con la paura che un figlio fuori a giocare fosse sulla traiettoria di un proiettile vagante, una vita con poche risorse per giunta. Le continue chiusure dei confini e l’isolamento dei territori stava causando una grave crisi economica con conseguente disoccupazione, povertà e crollo del sistema educativo.

Certo fu uno shock celebrare la Pasqua, segno di pace e riconciliazione e di speranza tra due nazioni che stavano perdendo la speranza, mentre non avevano mai avuto la pace. Da un lato in Israele si viveva in trincea con telecamere in ogni angolo, militari armati per strada contro un nemico senza volto e alla mercè di attentati, che potevano capitare in ogni momento e in ogni luogo senza preavviso o possibilità di difesa. Dall’altro in Palestina distruzione e un cielo da cui piovevano bombe e dolore.

Insomma un totale intreccio di ragioni e di torti, una terra in fiamme, su cui soffiava, e continua a soffiare, il vento degli interessi internazionali, che aggiungono benzina al fuoco di odi stratificati sempre più difficili da superare.

Qualche anno dopo uscì il  libro “ la guerra che non si può vincere”di David Grossman, scrittore israeliano, che come nessun altro ha raccontato “la tragedia di due popoli ormai abituati a vivere all’ombra della morte, pronti ad accogliere in ogni momento la notizia di un attentato, della perdita dei propri cari, dello scoppio di una nuova guerra: uno stato di conflitto così profondo e radicato nella vita quotidiana che nessuno sembra più in grado di uscire dalla terribile logica della vendetta. Perché la pace invocata da Grossman non è solo il rifiuto di ogni forma di ricorso alla forza e alla violenza: è l’unica conclusione possibile di una guerra che nessuno può vincere.” Mai mi sono sentita così in sintonia con un testo come mi sono sentita con questo, specie dopo l’esperienza fatta a Pasqua 2001 in Israele.

Ma torniamo a questo bellissimo paese e a questa fantastica avventura alla ricerca delle radici di una terra tanto tormentata. Il sabato mattina la mia amica ed io avevamo qualche ora per conto nostro, mentre suo marito andava ad un incontro o ad una cerimonia, non ricordo, da cui noi due, di comune accordo, ci eravamo sganciate per fare un giro per la città vecchia, di cui non eravamo mai stanche.

Il marito della mia amica ci raccomandò di non arrivare fino al Muro del Pianto proprio il Sabato nel momento della preghiera. Noi due promettemmo, ma poi a un certo punto ci accodammo ai fedeli che andavano a pregare al Muro. Io non l’avevo mai visto da vicino, perché nella mia precedente visita era irraggiungibile dalla Giordania, così finimmo per andarci.

Perquisizione e fermo dei soldati, poi dopo aver lasciato le nostre generalità e averci riconosciute come italiane ci fecero passare, ma al primo mio timido tentativo di fare una foto venni circondata dai soldati, che mi intimarono di evitare qualunque ripresa o mi avrebbero sequestrato la macchina fotografica. Pazienza! Cercai di imprimermi nella memoria quel luogo simbolo dell’ebraismo senza l’ausilio di immagini impresse sulla pellicola, da riportare a casa e rivedere di nuovo.

Il Muro del Pianto è la parte sopravvissuta del muro occidentale del tempio di Gerusalemme (non quello di Salomone ma il secondo, quello del tempo di Gesù), che venne distrutto nel 70 D.C. dai romani. La distruzione dette inizio alla diaspora degli ebrei ed essi persero per sempre il loro luogo più sacro. Ancora oggi  è viva l’usanza di inserire tra gli interstizi del muro dei biglietti con preghiere, mentre davanti al muro uno spazio completamente vuoto è diventato un luogo di culto a cielo aperto in cui uomini e donne vanno a pregare ciascuno nella propria area.

Sopra il muro si estende la spianata del tempio con la famosissima Cupola della roccia. Eravamo nel cuore del sacro per ben tre religioni: ebrea, mussulmana, cristiana, ed in uno dei luoghi più contesi al mondo. Non mi fu permesso, come detto di arrivare fino alla Cupola della Roccia dove ero stata in precedenza, ma la vidi da lontano e quella cupola d’oro, che brilla con le sue mura di piastrelle blu per me è di una bellezza indicibile e anche a distanza cercavo sempre di scorgerla nel panorama della città.

Ogni mattina, come già detto, uscivo per conto mio per potermi godere in solitudine i vari angoli della città  e dare spazio ai miei pensieri e alle mie sensazioni. Nei vari giri mattutini mi ritrovai così al “Muristan” tanto animato di giorno quanto deserto di primissimo mattino.

Si tratta di un quartiere nella zona cristiana della città vecchia, costituito da un insieme di stradine risalente al II secolo  A.C.  Siamo a sud della Chiesa del Santo Sepolcro e la leggenda racconta che qui sorse un ospedale voluto dal re Antiochio V , che aveva avuto una visione proprio al Golgota (Chiesa del Santo Sepolcro). L’ospedale fu nei secoli più volte distrutto e ricostruito e oggi la zona è sede di un animato mercato, ma, come ho detto, era deserta quando io mi ci avventurai.

L’ultima ricordo, che voglio citare, è il lunedì di Pasqua a Emmaus dove nella chiesa avveniva una cerimonia di distribuzione del pane da parte del celebrante la Messa, tipico segno di pace e condivisione. È sempre stato uno dei miei favoriti l’episodio del Vangelo di Marco  sui discepoli di Emmaus specie queste parole: “Quando furono vicini ad Emmaus e il viaggio stava per terminare, Gesù finse di voler proseguire, ma essi lo pregarono di rimanere quella notte, perché si stava facendo tardi. Così egli andò a casa loro. Questa immagine dei discepoli che cammin facendo parlano e raccontano al forestiero cosa è successo e si scambiano notizie, e gli offrono ospitalità, è una scena fuori dal tempo e vivida  e ci ripensavo  mentre mi trovavo sulla spianata della chiesa guardando due frati che in disparte seduti su un muretto parlavano  tra loro.

Vorrei concludere questa lunga carrellata di ricordi cercando di spiegare il fascino che Gerusalemme esercita su di me. Tutto quanto succede in questa terra è oggetto perenne di analisi, di arrovellamenti per cercare di capire, di discernere e alla fine si tratta di un puzzle che non trova mai soluzione, perché troppe sono le varianti, troppe le complicazioni, troppi i substrati culturali e le contraddizioni per cui  la ragione finisce per trovarsi in un vicolo cieco.

Ma alzando gli occhi sulla porta di Damasco, camminando su un acciottolato deserto con un panettiere che espone i suoi pani pasquali sulla strada, lasciando vagare  lo sguardo sulla cupola d’oro sulla spianata del tempio , osservando le cupole del Santo Sepolcro, la ragione  e la modernità con tutte le sue implicazioni, si allontana per lasciar posto alla spiritualità. Questa città contesa, piena di  suggestioni, che nessuno riesce a possedere, è in realtà dentro ciascuno di noi come aspirazione all’infinito, come  anelito al divino, spingendoci ad alzare lo sguardo verso il cielo, qualunque significato esso abbia per ciascuno di noi.  Si respira un’aria diversa da qualunque altro luogo nel mondo e la sua fascinazione trascende la ragione e parla al cuore.

Scriveva Carlo Maria Martini “Non si può parlare di Gerusalemme senza amarla.”

Fabrizia Cataneo

Viaggiatrice